Un anno fa, sull’onda dei dibattiti stimolati dal libro “2030 La tempesta perfetta – Come sopravvivere alla grande crisi”, scritto con Gianluca Comin e pubblicato nel 2012 da Rizzoli, avevo elencato dieci questioni che mi ripromettevo di approfondire in un immaginario viaggio per esplorare il futuro. Il viaggio ovviamente non è finito, né mai lo potrà essere. Però è giunta l’ora di compilare un primo rapporto che non risponde completamente alle dieci domande, ma fornisce elementi aggiornati e in parte le riformula. Siamo sempre più preoccupati per la distruzione del lavoro e per le diseguaglianze indotte dalla tecnologia, non riusciamo a esprimere una politica globale in materia demografica e ambientale, ma in tutto il Pianeta si rafforzano le spinte dal basso verso valori comuni e si prospettano nuove forme di democrazia con il contributo della Rete.
Il futuro della tecnologia. Non ho scoperto niente di nuovo sull’uomo bionico, ma sono stato molto colpito dalla decisione di Raymond Kurzweil di accettare l’incarico di capo della ricerca di Google. Kurzweil è forse il più noto tra i futurologi, fondatore della Singularity University che studia gli effetti combinati di informatica, robotica, genetica e nanotech sul futuro del mondo e spinge gli allievi a lavorare su progetti che cambino la vita almeno di un miliardo di persone. La sua scelta di lavorare per Google indica la convinzione che soltanto con la collaborazione delle più grandi imprese multinazionali è possibile cambiare positivamente il futuro. Prendiamone atto. Se Ray ha ragione, significa che dobbiamo smettere di criminalizzare le multinazionali. Cerchiamo di imporre controlli e limitazioni quando tentano di impadronirsi della nostra vita o dei nostri segreti, ma con la consapevolezza che non possiamo fare a meno di queste organizzazioni.
Il lavoro. Di tutti i temi elencati nel mio post di un anno fa, questo è balzato all’attenzione delle cronache internazionali, come attestano due copertine dell’Economist, sulla disoccupazione giovanile e sulla distruzione di posti ad opera della tecnologia (il 47% degli attuali lavori saranno rimpiazzati dalle macchine nei prossimi vent’anni). Edoardo Segantini e Massimo Gaggi ha raccontato il dibattito in alcuni articoli sul Corriere e sulla Lettura. I termini del problema ora appaiono più chiari: la tecnologia potrà anche darci in futuro un mondo molto migliore, con risorse sufficienti per tutti, ma nel frattempo distrugge lavoro e accentua le diseguaglianze tra chi fa parte di una elite mondiale perché controlla le innovazioni (e la finanza) e tutti gli altri, condannati a bullshit jobs (lavori di merda) dalla distruzione delle mansioni della classe media. Ai bullshit jobs corrispondono anche bullshit salaries, paghe scarse, precarie, non sufficienti a garantire il futuro. Molti negano il problema, soprattutto in Italia, illudendosi che lo Stato possa proteggere i posti di lavoro o che la tecnologia possa crearne più di quelli che distrugge; una tesi ormai sconfessata dalla realtà, almeno nel breve termine.
Le uniche ricette plausibili che ho visto sono quelle dell’Economist: investire fortemente in istruzione, in un nuovo tipo di istruzione che spinga la gente a essere più creativa; mettere in moto meccanismi importanti di redistribuzione del reddito. Non dimentichiamo però che il lavoro non è soltanto salario, ma determina anche lo status della persona nella società ed è fonte di soddisfazione individuale. Non sarebbe in equilibrio una società nella quale pochi lavorano con elevatissima produttività grazie alle nuove tecnologie e gli altri ricevono sussidi. A questo punto torna di attualità la vecchia ricetta della sinistra: lavorare meno, lavorare tutti. In Italia ne parla soltanto Pierre Carniti, vecchia bandiera del sindacalismo cislino, e pochi altri. Ma un discorso sul futuro del lavoro è urgente anche da noi.
A proposito di istruzione. Quest’anno sono usciti i risultati dell’indagine dell’Ocse sulle competenze adulte (Piaac) dai quali risulta che la popolazione italiana tra i 16 e i 65 anni è agli ultimi posti tra i Paesi sviluppati per capacità di comprensione e sintesi di un testo e di elaborazione di un problema matematico. Anche questo probabilmente contribuisce ai nostri drammi: gran parte dell’opinione pubblica non è in grado di capire la sostanza delle sfide che abbiamo davanti. Purtroppo questo deficit non riguarda soltanto le generazioni più anziane, ma anche molti giovani, abituati ormai a esprimere pareri “con la pancia” nello stile dei social network, ma senza realmente sforzarsi di approfondire i problemi.
La curva demografica. Le previsioni diffuse nel corso del 2013 dall’Ufficio statistico delle Nazioni unite mostrano una curva demografica in accelerazione: avanti di questo passo, saremo (anzi, sarete) 9,2 miliardi nel 2050 e quasi 11 miliardi nel 2100. Su Numerus ho ripreso le dichiarazioni del presidente del Population Institute Robert Walker: la battaglia si combatte favorendo l’empowerment delle donne, perché il controllo delle nascite dipende soprattutto dalla loro capacità di imporsi nelle scelte familiari. Quindi lotta ai matrimoni infantili e forte appoggio all’educazione delle adolescenti. Una speranza arriva anche dal cambiamento al vertice della Chiesa. Anche se non mi sembra che Francesco abbia preso posizione apertamente in materia, il suo atteggiamento più rispettoso delle Chiese locali dovrebbe favorire un ripensamento anche in materia di family planning e di diffusione dei contracettivi.
Il riscaldamento e la governance globale. Siamo tutti in attesa del nuovo Rapporto Ipcc che verrà diffuso tra circa un anno, ma gli elementi già rivelati nel 2013 consentono già di comporre un quadro più certo: il riscaldamento è in corso, anche se è probabilmente più lento di quanto si temeva, e farà sentire i suoi effetti peggiori soltanto alla fine del secolo. Ma gli effetti potrebbero essere davvero drammatici, ben più gravi delle sciagure meteorologiche che stiamo sperimentando oggi. Purtroppo la capacità del mondo di esprimere una reazione concertata non ha fatto passi avanti. Si può dire anzi che la governance mondiale in materia di ambiente, ma anche nella lotta al terrorismo o su altri temi globali, sia il grande punto di debolezza del mondo contemporaneo, tanto che si rafforzano le previsioni di chi vede il mondo diviso in grandi aree di influenza, supernazioni in competizione tra loro, col rischio che la competizione passi dal piano economico a quello militare.
Il nuovo sviluppo. Eppure c’è tanta gente nel mondo che ha valori comuni, che da una Paese all’altro si scambia apprezzamenti e auspici sui social network, che vorrebbe impegnarsi per un mondo migliore. Io lo auspico, ma forse è solo wishful thinking: potrebbe nascere un movimento internazionale dal basso per promuovere questi valori e trasformarli in azione politica. Era ed è questo il sogno di Marco Pannella con il suo Partito radicale nonviolento transnazionale e transpartito, ma il movimento pannelliano si è avviluppato nei soliloqui del suo fondatore e l’intuizione iniziale andrebbe ripresa con ben altra forza. L’ambientalismo è certamente un possibile collante transnazionale, ma bisognerebbe riuscire ad andare al di là degli auspici e dei comportamenti individuali per elaborare un programma politico globale. È sempre più chiaro che le comunità umane per salvare il Pianeta devono darsi obiettivi diversi dal mero sviluppo economico. Oggi ci sono meno di due miliardi di persone di cosiddetta classe media, che guadagnano tra dieci e cento dollari al giorno. Tra vent’anni saranno cinque miliardi. Se tutti vorranno standard analoghi ai nostri, automobili, elettrodomestici, consumi di carne, acqua ed energia, la terra arriverà certamente a quella che abbiamo chiamato “La tempesta perfetta”. Il problema https://www.donatosperoni.it/2013/05/03/oggi-possiamo-trasformare-in-realta-la-canzone-di-john-lennon immediato non sarà il riscaldamento globale che potrebbe rivelare i suoi peggiori effetti nella seconda metà del secolo o anche oltre, ma più semplicemente, nel prossimo ventennio, la fine delle materie prime, l’esaurimento delle riserve idriche, l’inquinamento mortale dell’atmosfera delle megalopoli (sta già avvenendo in Cina) nelle quali vivranno due terzi della popolazione del mondo. Per evitare questa catastrofe non si può predicare bene e razzolare male, bisogna rapidamente cambiare tutti sfruttando al meglio le nuove tecnologie.
È una sfida che richiede interventi “top down” e bottom up”. Dai vertici globali, un piccolo segnale positivo è il lavoro in corso alle Nazioni Unite per rinnovare i Millennium Development Goals, sostituendoli dopo il 2015 con Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable development goals). Il concetto di sostenibilità non dovrebbe riguardare soltanto l’ambiente naturale, ma anche la ricchezza sociale di ciascun Paese, perché non è sostenibile un Paese dove le reti di solidarietà si disgregano e la gente si sente infelice. La felicità, o almeno il benessere collettivo, entrerà a far parte dei grandi obiettivi della politica mondiale “oltre il Pil”. E questa è una buona cosa.
Il vero progresso, tuttavia, si potrà avere soltanto con una forte spinta “dal basso”. Se pensiamo ai sistemi democratici da qui a vent’anni, è difficile immaginare che i meccanismi saranno gli stessi tramandati dal Settecento a oggi: assemblee di eletti scelti ogni quattro o cinque anni e incaricati di decidere per noi. Una selezione di delegati in qualche modo dovrà esserci (mi sembra molto lontano un mondo in cui tutti decidono su tutto), ma gli strumenti di intervento degli elettori nel corso del mandato dei loro eletti saranno molto più forti. Lo vediamo già oggi, con i parlamentari italiani della nuova legislatura assillati (e a volte ottenebrati) dalla tempesta di mail, sms, interventi su facebook e twitter. Questa voglia di partecipazione dei cittadini che finalmente può esprimersi grazie alle nuove tecnologie deve essere incanalata. Servono nuove tecniche di elaborazione del consenso perché la partecipazione continua possa tradursi in proposte costruttive anziché nella deleteria “democrazia dei sondaggi”, nella quale il parere di tutti quelli che non sanno nulla (e non hanno neanche voglia di studiare i problemi) condiziona le decisione di quelli che sono invece pagati per approfondire e per decidere. È questo uno dei temi della e-democracy. Mio figlio Pietro Speroni di Fenizio la studia da anni e quindi mi sto lasciando guidare da lui per esplorare questo campo a me sconosciuto. È uno dei terreni più interessanti del mio lavoro nei prossimi mesi. Vi racconterò, anzi, vi racconteremo.