La guerra contro la pirateria infuria, non solo nel Mar Rosso, ma anche sul web. I detentori di copyright (editori, case discografiche, produttori cinematografici) sono scatenati da anni per bloccare il peer to peer, cioè quei software che consentono di trasferire “alla pari”  tra gli utenti musica, film o testi protetti. E’ di ieri la notizia della condanna a un anno di prigione da parte di un tribunale di Stoccolma per complicità nella violazione di diritti d’autore dei quattro giovani che con il sito svedese “The pirate bay” hanno facilitato gli scambi formalmente illeciti. “Don’t worry”, hanno risposto i pirati sul loro sito.
Non ho dubbi sul fatto che i pirati del Corno d’Africa alla fine dovranno capitolare. Ma dopo la lettura del libro
di Luca Neri “La Baia dei Pirati – assalto al copyright” (Cooper editore, supportato da un sito che segue gli sviluppi della questione), mi sono convinto che invece sul web vinceranno loro. Le ragioni sono spiegate dall’autore anche in una intervista sulla Repubblica, rilasciata dopo la sentenza svedese. Quello che invece è ancora molto oscuro è come sarà questo mondo dominato dalle leggi (anzi dalla mancanza di leggi) dei pirati: come se Morgan o l’Olonese avessero esteso all’intera America spagnola i costumi debosciati della Tortuga. E val la pena di ragionarci.Lo confesso: appartengo a una generazione e ho fatto per oltre quarant’anni un mestiere, quello del giornalista, che portano a considerare sacro il diritto d’autore, ma il fenomeno del peer to peer è talmente esteso e talmente radicato come comportamento etico nelle nuove generazioni di tutto il mondo (e i giovani lo insegnano anche ai loro genitori), da farmi sentire come un Don Chisciotte che ancora crede nella cintura di castità in un mondo dedito al libero amore. D’altra parte anche noi del Medio Evo qualche peccatuccio l’abbiamo commesso, quando copiavamo i dischi su cassetta o duplicavamo i cd degli amici… Anche quello era un peer to peer. La novità è che oggi esistono software che rendono questo processo infinitamente più facile, facendo crollare le entrate delle case discografiche e attentando ai bilanci delle major del cinema.
Se i pirati vinceranno la guerra, il mondo delle produzioni creative sarà totalmente sconvolto. Ma non è detto che diventerà peggiore. Cambieranno invece i modelli di business e in parte i prodotti. Per stimolare la discussione facciamo qualche ipotesi, cominciando dal settore dove questo fenomeno è più diffuso: la musica. Che succederebbe se ogni canzone, ogni brano musicale, fosse liberamente scambiato in rete? Due cose, dicono i portavoce dei pirati, che in Svezia, come racconta Neri, sono diventati un vero e proprio partito: la prima è che anziché puntare su pochi gruppi musicali sponsorizzati dai discografici, il fenomeno della “coda lunga” consentirebbe a più gruppi di farsi conoscere. E come camperebbero i musicisti? Risposta: darebbero meno soldi alle case discografiche, puntando invece su concerti, edizioni di pregio e libere donazioni dei fan, come sta già avvenendo per alcuni che hanno fatto la scelta della musica “free”. D’altra parte, oggi il mondo della musica si divide tra pochi gruppi superpagati e pompati dalle case discografiche e una grande massa di musicanti che fa la fame. Non è detto che nel mondo dei pirati questa massa starà peggio; anzi, avrà l’opportunità di far conoscere la propria produzione senza l’intermediazione dei discografici e magari guadagnerà di più.
E il cinema? Qui le risposte sono ancora più problematiche. Si salverebbe quello legato alla fruizione collettiva, cioè i film che è comunque bello vedere in una grande sala con altri spettatori, avvalendosi delle tecnologie visive e sonore più avanzate. Alla fine però è probabile che il risultato complessivo sia un ridimensionamento del costo e del numero dei film, con meno effetti speciali e attori meno pagati (tranne i pochi destinati ai grandi successi nelle sale), film più corti e magari interrotti dalla pubblicità…. in pratica sarebbe un appiattimento su produzioni di tipo televisivo, in linea coi gusti del pubblico giovane che cerca film più corti e “si stufa” a vedere un film di due ore.
Non sono sicuro che sia un bene: non tutto è bello, in una rivoluzione. Certo ci sono anche i filmini di You Tube, ma non è la stessa cosa. Forse si dovranno cercare dei correttivi pubblici. Analogamente, nel mio precedente post ipotizzavo un giornalismo senza giornali, meno spontaneistico dei contributi dei blogger peraltro importanti, ma capace di coprire sistematicamente la cronaca come fa oggi la carta stampata.
E le altre opere dell’ingegno, i libri, le riviste accademiche e culturali? Ne parleremo la prossima volta.

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