Perché il nuovo Rapporto del Censis non parla dell’ambiente né tra le preoccupazioni né tra le strategie economiche degli italiani? Molti credono che le problematiche ambientali siano solo una moda, ora cancellata dalla crisi. Ma non è così e quanto sta accadendo nel mondo lo dimostra.
La crisi ha cancellato l’ambiente dai pensieri degli italiani? Così sembra, leggendo il Rapporto 2008 del Censis, che non dedica nemmeno una parola alle tematiche ambientali, né sotto il profilo dei cambiamenti dei modelli di consumo, né sotto quello dei soggetti (e delle tipologie di investimento) che dovrebbero rimettere in moto lo sviluppo del Paese.
Ogni centro di ricerca ha una propria cultura e l’attenzione all’ambiente non fa parte della storia del Censis, peraltro benemerito per aver saputo cogliere e anticipare negli anni molte delle caratteristiche del modello italiano. Anche quest’anno mi sono sembrate apprezzabili alcune indicazioni sull’Italia che uscirà dalla crisi: con una popolazione più concentrata  nelle cosiddette “megacities” (60% della popolazione in dodici grandi aree), con un ruolo crescente delle donne e degli immigrati, ma con fragilità che derivano innanzitutto dal persistente ritardo del Mezzogiorno e dall’indebolirsi “delle capacità di protezione e di sostegno del governo statuale nazionale”. Ma la disattenzione all’ambiente non è solo una dimenticanza: è indicativa del modo di pensare della nostra classe dirigente che in buona parte considera le tematiche ambientali come una “moda” o una “bolla” destinata a ridimensionarsi di fronte a problemi più urgenti.
Prendiamo per esempio l’obiettivo del “venti venti venti” lanciato un anno fa dall’Unione Europea su iniziativa di Angela Merkel. Prevede che entro il 2020 si ottengano in Europa tre risultati: un aumento dell’efficienza energetica del 20 per cento, una riduzione delle emissioni di anidride carbonica del 20 per cento e una quota del 20 per cento dei fabbisogni di energia soddisfatti da energie rinnovabili. Si tratta di obiettivi molto ambiziosi, che ora il governo italiano (e non solo quello italiano) stanno ridiscutendo a Bruxelles. Ma si ha l’impressione che, al di là di eventuali possibili slittamenti, manchi una strategia globale, nel governo e nel sistema industriale del nostro Paese.
La nuova legge finanzaria riduce gli incentivi per  l’efficienza energetica nelle abitazioni, dando un segnale di grave disattenzione verso la persistente necessità di un cambiamento dei modelli di consumo di energia. Nel campo delle energie rinnovabili operano alcune imprese italiane virtuose, ma il settore non ha certo l’importanza che ha per esempio in Germania, dove si prevede che entro il 2020 supererà quello dell’industria dell’automobile. E quanto alle emissioni di anidride carbonica, è in corso un braccio di ferro sulla quantità e il costo dei cosiddetti “certificati di inquinamento” da rilasciarsi alle industrie per evitarne la delocalizzazione in Paesi meno esigenti, ma non si capisce che ruolo vogliamo svolgere nel complesso meccanismo che con grande fatica ma anche con risultati significativi si è messo in moto a livello internazionale per contrastare le emissioni di CO2.
Quasi tutti gli italiani sanno che cos’è l’effetto serra e sono convinti che il clima stia cambiando perché ne vedono gli effetti, per esempio nelle perturbazioni più violente che da qualche anno colpiscono il nostro Paese. Però se li si interrogasse su quello che si sta facendo nel mondo, è probabile che l’opinione prevalente (a parte l’altissima percentuale di “non so”) sia che il protocollo di Kyoto è fallito e che comunque non si potrà fare niente perché i peggiori inquinatori, dagli Stati Uniti ai grandi Paesi emergenti, non hanno alcuna intenzione di cambiare politica.
Non è così. A parte il fatto che le politiche ambientali saranno uno dei punti di cambiamento più significativo (già annunciato) di Obama rispetto a Bush e che anche Paesi come la Cina stanno cominciando ad affrontare questi temi, la realtà è che il processo di governance internazionale scaturito dal Protocollo di Kyoto, largamente insufficiente ma tutt’altro che ininfluente, si è già messo in moto. Sul sito della Unfccc, la struttura dell’Onu che sovraintende alle problematiche del cambiamento di clima, si trova per esempio l’elenco dei progetti del Clean Development Mechanism (Cdm), che postulano collaborazione tra Paesi sviluppati e Paesi in via di sviluppo. In pratica questi progetti fanno risparmiare anidride carbonica (per esempio promuovendo le energie rinnovabili nei Paesi in via di sviluppo) e consentono così di ottenere “permessi di inquinamento” nei Paesi industrializzati dove la riconversione è più lenta e faticosa.
Un sistema macchinoso? Certamente, ma un sistema che sta acquistando consistenza, come dimostra il fatto che nel giro di quattro anni si sono varati circa 1500 progetti. Il meccanismo è stato ampiamente utilizzato da alcuni Paesi (la Cina innanzitutto) per farsi finanziare nuove iniziative ambientali. Tra i Paesi industrializzati, alcuni (per esempio Gran Bretagna, Irlanda, Olanda, Canada, Svizzera) hanno impegnato fortemente risorse e sistema produttivo  nell’avvio di questi progetti. L’Italia è presente in una trentina di realizzazioni: non molte, ma con un interesse crescente. La conferenza in corso a Poznan e quella importantissima che si terrà a Copenaghen tra un anno porteranno con ogni probabilità a delineare un futuro, oltre il 2012 quando scadrà il trattato di Kyoto, nel quale questi meccanismi si rafforzeranno.
In conclusione, è possibile che, come sembra credere il Censis, la crisi renda gli italiani insensibili alle problematiche ambientali. Ma il mondo sembra muoversi in un’altra direzione (anche perché le conferme sul cambiamento di clima sono sempre più evidenti) ed è probabile che anche noi dovremo adeguarci. Ci possiamo arrivare in due modi:  trascinati controvoglia dalle politiche europee, oppure capaci di cavalcare i nuovi modelli di consumo e produzione nel rispetto dell’ambiente. Se saremo in grado di essere “global player” (per usare il linguaggio del Censis) anche in questo campo, potremmo scoprire che gli investimenti ambientali non sono un diversivo, ma piuttosto un elemento fondamentale di risposta alla crisi economica.

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