Mettiamo insieme un po’ di fatti, pubblicati di recente.

1) Il Quarto Rapporto dell’International Panel on Climate Change (Ipcc), il gruppo di 2500 scienziati impegnati dall’Onu a studiare il cambiamento di clima, ci dice che la temperatura media della terra è già aumentata di un grado dal 1900 e aumenterà almeno di un altro grado entro il 2100. Sembra poco, ma l’analisi sugli effetti (in corso di pubblicazione, sempre a cura dell’Ipcc) rivela che è sufficiente per mettere in discussione le condizioni di vita di miliardi di persone.

2) Le pur prudenti analisi dell’Ipcc si basano sull’ipotesi che le emissioni di biossido di carbonio (CO2) rimangano agli attuali livelli. Invece, sappiamo dall’International Energy Agency che non sarà così: a causa soprattutto della crescita dei Paesi in via di sviluppo antro il 2030 le emissioni di CO2 cresceranno dal 39 al 55%.

3) Nessuno sa davvero quali saranno le conseguenze di questa accelerazione dell’effetto serra. Cresce comunque la preoccupazione che le conseguenze non siano lineari: che cioè, data la complessità del sistema, ci possano essere effetti accelerati e imprevedibili. Se ne preoccupano le compagnie di assicurazioni, ma anche il Pentagono, che contempla scenari apocalittici: una delle ipotesi pubblicate è che l’Europa cominci a raffreddarsi fin dal 2010 (domani) a causa della deviazione della Corrente del Golfo.

E’ questo il quadro, altamente incerto ma comunque drammatico, che ha indotto Al Gore, dopo aver mancato per un soffio la presidenza Usa nel 2000, a intraprendere una crociata per promuovere una drastica revisione della politica ambientale negli Stati Uniti. Così facendo con ogni probabilità Gore rinuncia a candidarsi alla presidenza nel 2008, perché oggi meno del 10 per cento degli americani pensa che il clima sia un problema prioritario; ma le sue scelte nascono da una profonda convinzione personale e forse dalla certezza che alla lunga i suoi concittadini dovranno dargli ragione.

Anche nel nostro Continente qualcosa si muove. L’Europa ha fatto un passo avanti importante con le decisioni adottate dal Consiglio europeo dell’8 e 9 marzo, basate sul principio del 20 – 20 -20: ridurre del 20% entro il 2020 le emissioni di gas serra e per quella data incrementare della stessa percentuale l’uso delle energie rinnovabili e i sistemi di risparmio energetico. Si tratta dell’iniziativa più significativa adottata finora in vista del rinnovo del Protocollo di Kyoto, nel 2012, con l’ambizione di coinvolgere fortemente nelle politiche ambientali anche gli Usa, la Cina e l’India. Ma questi impegni sono tutt’altro che lievi e probabilmente comporteranno non solo politiche di settore, ma modifiche sostanziali del nostro modello economico, come del resto molte imprese (e molte società di consulenza) stanno cominciando a capire.

Anche l’Italia si dà da fare. Il 19 febbraio Romano Prodi e Pier Luigi Bersani hanno presentato il nuovo piano sull’efficienza energetica che prevede incentivi per le energie rinnovabili e misure per ridurre i consumi energetici, per esempio attraverso tecniche di bioedilizia. A un gruppo di lavoro guidato dall’imprenditore Pasquale Pistorio è stato affidato il compito di presentare un progetto entro quattro mesi per favorire l’innovazione e “la nascita di un’ecoindustria”.

È sufficiente? Difficile dirlo. Per ora, certamente, il problema non è entrato nella coscienza collettiva. È un tema di settore, uno dei tanti, caro in particolare ai Verdi. Ma dato che i Verdi sono un partito con precise connotazioni politiche, questo rende le cose ancor più complicate. Se in Italia ci fosse un Al Gore verrebbe immediatamente etichettato e di conseguenza perderebbe gran parte della sua credibilità.

In realtà, le misure che si dovranno adottare per combattere il cambiamento climatico non si collocano da una parte politica e non sono necessariamente gradite alla sinistra radicale. Ci si può affidare a una ricetta più dirigista (più norme restrittive, più incentivi per le rinnovabili), ma anche a una ricetta liberista, caldeggiata dall’Economist: più tasse su tutte le attività inquinanti. Forse la ricetta giusta è un mix delle due. Ma in ogni caso, c’è una domanda alla quale la politica, presto o tardi, ci chiamerà a rispondere: quanto siamo disposti a sacrificare del nostro benessere e del nostro modo di vivere per rallentare il cambiamento di clima? Forse oggi ben poco, ma è bene cominciare almeno a parlarne un po’ di più, come avviene nel resto del mondo.

2 commenti

  1. Ma davvero la politica è in questo caso più lungimirante dell’opinione pubblica? Sono certo della buona fede di Al Gore, ma non posso fare a meno di pensare che la sua campagna di sensibilizzazione tragga vantaggio soprattutto dal fatto di andare a toccare uno dei “nervi scoperti” della politica di Bush, preparando il terreno per lo scontro tra repubblicani e democratici in vista delle prossime elezioni presidenziali. Per quanto riguarda la dichiarazione d’intenti dei Paesi europei, forse la preoccupazione maggiore non è tanto l’ambiente quanto piuttosto la disperata ricerca di un’alternativa per ridurre la dipendenza dai capricci degli attuali scomodi fornitori di risorse energetiche convenzionali, Russia in testa.
    Mi chiedo quindi se la politica avrà davvero la forza – non solo in Italia, ma anche in altri Paesi più “illuminati” – di introdurre a breve provvedimenti penalizzanti per le nostre economie tradizionali e a maggior ragione impopolari per un’opinione pubblica che ancora fatica a vedere il nesso fra i propri comportamenti individuali e le drammatiche conseguenze sul piano collettivo.

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