Ecco il testo della mia intervista a Enrico Giovannini, chief statistician dell’Ocse, pubblicata sul numero di giugno della rivista bimestrale EAST, Europe and Asia STrategies, che è pubblicata in italiano e in inglese. La ripropongo ora perché Giovannini ha appena annunciato sulla newsletter dell’Ocse la prossima conferenza internazionale di Istanbul, nel giugno 2007, dedicata (come quella di Palermo del 2004) al rapporto tra statistica e democrazia.
Ecco il testo pubblicato da EAST.
L’apparato statistico impiegato per misurare l’evoluzione economica e sociale è cresciuto enormemente negli ultimi cinquant’anni. Il dibattito mediatico resta però concentrato su numeri come il Prodotto interno lordo, il tasso di disoccupazione, gli indici di povertà, cioè su indicatori che non rendono giustizia alla complessità della vita umana. Ciò tende ad alimentare una crescente sensazione di inadeguatezza delle statistiche a descrivere le varie dimensioni della società moderna.
Negli istituti di statistica e nelle organizzazioni internazionali si avverte il rischio che la batteria di dati che periodicamente viene sfornata dai produttori istituzionali non sia più ritenuta credibile ed esauriente dalla collettività o almeno da una parte di essa. Al tempo stesso, in alcuni paesi evoluti anche la leadership politica è alla ricerca di nuovi indicatori che possano quantificare gli obiettivi di buon governo e favorire la misurazione dei risultati raggiunti.
L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico di Parigi (Ocse) riunisce i 30 paesi più industrializzati del mondo, con un’intensa interazione anche con quelli di nuova industrializzazione come India e Cina; è dunque in posizione privilegiata per seguire questa evoluzione. Il suo chief statistician, il direttore del Dipartimento statistico, è un italiano, Enrico Giovannini, fortemente impegnato a promuovere l’evoluzione delle tecniche di misurazione per tener conto della nuova economia globalizzata e delle diverse esigenze sorte all’interno delle comunità nazionali. Economista, 49 anni, Giovannini ha diretto tra l’altro la contabilità nazionale e le statistiche economiche dell’Istat negli anni caldi di avvicinamento all’euro, in forte e positiva interazione – non priva di momenti dialettici – coll’allora ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi. È titolare della cattedra di statistica economica a Roma Tor Vergata e sta per dare alle stampe un testo per il Mulino che si propone di rendere più comprensibile l’uso dei dati. All’Ocse dal 2001, ha promosso nel 2004 a Palermo un Forum mondiale su “Statistics, knowledge and society” dedicato in particolare ad “indicatori chiave” per misurare il progresso economico e sociale: un incontro che ha segnato un punto di svolta nei rapporti tra statistica e politica. East lo ha interrogato su questo tema.
La statistica subisce l’influenza della globalizzazione? Andiamo verso un vero e proprio sistema statistico internazionale?
È un percorso tutt’altro che lineare. Dal 1945 ad oggi il sistema statistico internazionale si è retto su due pilastri: le organizzazioni internazionali e le strutture nazionali deputate alla produzione di statistiche pubbliche, quali gli istituti di statistica e le banche centrali. Questi due mondi si sono evoluti con velocità diverse. Nell’immediato dopoguerra c’era bisogno di statistiche confrontabili e questo ha valorizzato il ruolo delle organizzazioni internazionali che hanno dettato gli standard metodologici e classificatori.
E dopo che cosa è successo?
Le utenze nazionali, più forti, hanno avuto il sopravvento. I dati elaborati dagli Istituti nazionali di statistica (Ins) sono diventati di gran lunga i più importanti e spesso sono stati sviluppati senza seguire gli standard internazionali, anche perché le risorse destinate alla statistica dagli Stati sono cresciute, mentre quelle delle organizzazioni internazionali sono diminuite.
Eppure tutti dicono di volere statistiche con validità internazionale
Certo, gli standard sono internazionali, ma manca un vero e proprio “sistema di produzione” globale. Mi spiego con un esempio. Tutti vorremmo conoscere meglio il comportamento delle multinazionali sul mercato mondiale. Ma per analizzarne i flussi complessivi, monetari e reali, dobbiamo fare salti mortali, incrociando i dati prodotti a livello nazionale sui movimenti di capitali, sugli investimenti diretti, ecc. senza alcuna certezza di coerenza complessiva.
Insomma lei sta dicendo che in questi tempi di globalizzazione abbiamo tante elaborazioni statistiche nazionali, ma un quadro statistico veramente globale molto limitato. Come se si dovesse pilotare un jumbo jet con la strumentazione di un aereo a elica
È così.
Ma il nuovo secolo non si è aperto con un grande sforzo di crescita della capacità statistica anche nei paesi in via di sviluppo? I Millennium Development Goals (Mdg, vedere East, n.2) non costituiscono un grande passo avanti? In fondo si tratta di obiettivi politici al 2015, comuni a tutti i paesi del mondo e monitorati attraverso indicatori statistici.
Sì, ma che cosa rappresentano? Per i paesi industrializzati si tratta di obiettivi già raggiunti e quindi poco importanti. Per gli altri, sono obiettivi scelti senza una effettiva condivisione con le popolazioni , misurati in base ad indicatori calati dall’alto, spesso elaborati dagli istituti di statistica locali solo grazie ad aiuti finanziari esterni, o frutto di stime prodotte dalle organizzazioni internazionali.
Il quadro che traccia non è confortante. Eppure lei stesso, in una relazione di qualche anno fa, parlava dell’obiettivo di arrivare a un sistema statistico mondiale
Non si può pretendere di arrivare dove i governi non arrivano.
Dunque niente statistica mondiale senza un governo mondiale?
Diciamo che la statistica (che è appunto scienza dello stato, cioè delle istituzioni) evolve di pari passo con gli assetti nazionali e internazionali.
Ma nel complesso la qualità delle statistiche pubbliche sta migliorando?
Sul piano tecnico certamente. Ma è difficile assegnare pagelle sulla effettiva autonomia delle statistiche dalla politica. Persino nei paesi più avanzati, come la Gran Bretagna, è in corso una discussione per rafforzare i presidi di libertà della statistica ufficiale. Gordon Brown si è impegnato a promuovere misure di tutela dell’istituto di statistica inglese, perché anche chi ha la miglior tradizione sul piano tecnico può rischiare di vedersi erodere la propria autonomia in mancanza di garanzie legislative.
Ritornando alle statistiche internazionali, che cosa può essere fatto per migliorarne la qualità? Non è un bel momento né per l’Onu né per l’Unione europea.
Credo che noi dell’Ocse siamo in posizione privilegiata per promuovere dei progressi. Innanzitutto perché riuniamo i paesi industrializzati con i migliori sistemi statistici del mondo. In secondo luogo perché, a differenza di altri, per esempio Eurostat, abbiamo un’immediata interazione con la nostra utenza interna, costituita dagli analisti che preparano raccomandazioni alle autorità politiche.
E questo che significa?
Che gli analisti richiedono continui miglioramenti nei dati statistici e che i nostri sistemi di elaborazione e validazione dei dati sono più molto attendibili. Se facciamo uno sbaglio, l’economista dell’Ocse che sta nella stanza accanto ce lo segnala immediatamente.
E che cosa state facendo in concreto?
Cito due iniziative. La prima riguarda i microdati, cioè i dati delle singole unità (persone, imprese o altro) sui quali si costruiscono le statistiche e che solitamente ogni paese custodisce gelosamente per obblighi di protezione della privacy. Per fare vere statistiche internazionali è essenziale andare ad utilizzare i microdati da ciascun sistema, anziché sommare le elaborazioni nazionali.
Via, è impossibile. In Italia c’è un solo laboratorio, Adele presso l’Istat di Roma, per accedere ai microdati. Persino in paesi statisticamente evoluti come il Canada ci sono alcuni bunker sparsi nel Paese per consentire agli studiosi di effettuare elaborazioni senza portare fuori i dati di origine. Come potete pensare di mettere tutto questo in un sistema internazionale?
Gli australiani hanno trovato il modo di far consultare, per fini di ricerca, i microdati anche on line senza mettere a rischio le informazioni individuali. Allo stesso modo si può creare un sistema internazionale di accesso ai microdati nazionali. Si rende conto che svolta sarebbe poter fare delle vere analisi transnazionali, per esempio sulle ragioni di successo delle imprese più competitive?
Ma questo significa anche una gigantesca operazione per rendere i dati sempre più omogenei.
E questo è il secondo punto sul quale stiamo lavorando. Finora ciascun Paese elabora i suoi dati e li manda a tutte le organizzazioni internazionali. Ciascuna organizzazione, a sua volta, ha le proprie procedure di validazione e stima di dati mancanti, col risultato che magari sul Pil o sul disavanzo pubblico di una nazione circolano dati diversi. Attenzione, non stime sul futuro, ma dati diversi sul passato. Tra gli istituti nazionali e ciascuna organizzazione internazionale.
E quali sono i progressi possibili?
Sempre più spesso, gli Ins mandano i dati a una sola organizzazione competente per argomento che li valida e poi li trasmette alle altre. Per esempio, noi riceviamo tutti i dati dei trenta paesi aderenti all’Ocse sul commercio estero. Li validiamo e ogni notte li trasmettiamo all’Onu, che compie lo stesso processo per i paesi non Ocse e ce li trasmette. Ma c’è un passo ulteriore, più ambizioso.
Coinvolgere in questo processo gli istituti nazionali?
Esattamente. Se gli Ins ci forniscono dati già coerenti con gli standard internazionali e validati secondo criteri condivisi, il processo diventa molto più semplice.
Famo a fidasse, come si dice a Roma. Chi vi garantisce che lavoreranno bene?
L’evoluzione informatica può aiutare molto. Infatti, le organizzazioni internazionali hanno sviluppato nuovi standard che rendono possibile questa interazione. L’importante è che i dati di base siano resi disponibili sui siti web secondo formati predefiniti, così da essere automaticamente validati e utilizzati da tutte le organizzazioni internazionali senza dover procedere ad ulteriori elaborazioni.
Dal quadro che lei traccia, però, risulta che nel complesso le organizzazioni internazionali sono l’anello debole del sistema statistico mondiale.
È vero, ma se i processi di validazione saranno svolti a livello nazionale, pur con un sistema di validazione e condivisione dei dati deciso a livello internazionale, per le organizzazione internazionali sarà possibile risparmiare molto lavoro e dedicare più energie al miglioramento delle statistiche mondiali.
Resta il fatto che gli istituti nazionali hanno principi e standard mutuati dalle organizzazioni internazionali, come per esempio lo Special Data Dissemination Standard (Sdds) creato dal Fondo Monetario…
Principi che, paradossalmente, finora mancavano proprio per le organizzazioni internazionali. Ma nel settembre 2005 queste ultime hanno sottoscritto una dichiarazione di principi e di buone pratiche per le organizzazioni internazionali attive in campo statistico.
C’era già però una carta dell’Onu sui principi della Statistica, varata nel 1994…
Sì ma quella adottata nel 1994 riguardava gli istituti nazionali; questa è il suo pendant per le organizzazioni internazionali.
Finora abbiamo trattato i problemi organizzativi ed anche politici che riguardano la produzione di statistiche pubbliche. Ma nel merito delle statistiche prodotte, sta cambiando qualcosa? Il Pil, prodotto interno lordo, per esempio, è sempre meno adeguato, a detta di molti, per misurare l’effettivo progresso di un Paese.
È in corso un grosso cambiamento che si può riassumere così. Per cinquant’anni ci siamo, in un certo senso, “accontentati” di misurare i flussi della ricchezza prodotta di anno in anno. Adesso si vogliono misurare anche gli stock (economici, ambientali, ecc.), come si fa nella contabilità aziendale.
Può essere meno tecnico?
Si vuole sapere, per esempio, se la ricchezza economica è prodotta distruggendo foreste non rinnovabili; se cioè il prodotto di oggi va a scapito del patrimonio che lasceremo ai nostri figli.
Dunque il Pil andrà in pensione?
Non è così semplice. Può essere possibile – ancorché non facile – misurare il costo di rimpiazzo di una foresta per detrarlo dal prodotto nazionale; ma che dire dei beni intangibili, come lo stock di capitale umano, a sua volta funzione, ad esempio, del grado di istruzione, che non si può misurare solo in unità che frequentano le scuole o gli atenei, perché il rendimento effettivo è molto diverso a seconda del sistema scolastico.
Certo, si tratta di problemi statistici di non facile soluzione.
Ma non basta. La domanda d’informazione è cambiata. Oggi sappiamo se stiamo meglio economicamente, che alcune cose vanno meglio e altre peggio, ma alla fine come misuriamo il progresso complessivo? È il problema tipico della knowledge society: disponiamo di una quantità straordinaria di informazioni, possiamo affinarle ulteriormente, ma non abbiamo gli strumenti culturali per trasformarle in conoscenza. E così si tende a sottovalutare le informazioni oggettive e a basarsi sulle percezioni dei singoli.
Infatti mi sembra che anche il dibattito sul superamento del Pil come strumento di misura si svolga su due piani: da un lato il lavoro degli statistici per corredare il dato di altri indicatori (e anche voi dell’Ocse avete fatto di recente uno sforzo in questa direzione), dall’altro la battaglia di chi ha fatto del “No Pil” una bandiera politica.
Certo, nel momento in cui viene a cadere il riferimento puro a una misura condivisa dalla società, tutto diventa relativo. Portato all’estremo, tutto diventa soggettivo, al punto tale che la percezione conta più della misurazione della realtà oggettiva. La statistica viene dileggiata con l’apologo del pollo di Trilussa, che in realtà è solo una denuncia del cattivo uso dei dati.
Anche un libro di successo, How to lie with statistics, come mentire con le statistiche, viene citato a sproposito, mentre in realtà è un libro che spiega come fare buon uso dei dati. Ma se questa è la situazione, come se ne esce?
Il fatto è che la statistica viene messa sotto accusa perché non riesce a rappresentare quella che io come singolo penso che sia la realtà. Se ne esce solo con un grande investimento in cultura nell’uso dei numeri, ma anche con la capacità politica di tenere insieme un Paese, di assicurare una base comune su cui ragionare.
Ma il problema è generale o soltanto italiano?
L’Italia da questo punto di vista è in posizione particolarmente svantaggiata, come si è visto nella vicenda del changeover dalla lira all’euro. Mi sembra che ci sia un’incapacità culturale di gestire e comunicare la complessità della società odierna e una propensione a usare i dati come clave. Altrove è diverso. Talvolta l’attendibilità dei dati è stata messa in discussione; per esempio in Finlandia c’è stato un grande dibattito nazionale che è stato stroncato da una levata di scudi generale, per riaffermare che Statistics Finland era la fonte più autorevole di dati sul Paese. Tornando all’Italia, direi che i paesi che sono più indietro nella comprensione della società della conoscenza e dell’informazione sono anche quelle più indietro sulla capacità di sviluppare istituzioni culturali che gestiscano informazioni di questo tipo. La società della conoscenza richiede la condivisione dell’informazione usata, altrimenti diventa la torre di babele.
Torniamo al problema generale. D’accordo sul fatto che la negazione delle statistiche non è una soluzione. Ma è anche vero che si sente sempre più il bisogno di nuovi indicatori. Se il Pil non basta, come si misurerà tra dieci anni lo stato di un Paese?
Non credo che avremo un indice unico. Andiamo invece verso un riconoscimento della complessità che richiede misure complementari tra loro. Per integrare il Pil ci sono diversi criteri. Il primo è quello di estenderne la copertura anche ad altri fenomeni; per esempio calcolare un Pil verde, depurato delle distruzioni ambientali. Ma abbiamo già visto che è una strada che non porta da nessuna parte, perché le problematiche di misurazione sono talmente grandi da rendere questo tipo di misure molto opinabili. Il secondo approccio possibile è quello di elaborare indici compositi, come lo Human Development Index elaborato dall’Undp, che oltre al Pil prende in considerazione molti altri indicatori, quali la speranza di vita e il grado di alfabetizzazione. Ma i pesi attribuiti alle singole serie utilizzate per costruire l’indice composito sono soggettivi e opinabili. Oppure si può costruire un indice di felicità, ma anche questa è una valutazione soggettiva, fortemente influenzata da differenze culturali e geografiche, quindi una soluzione inadatta a comparare i risultati dei singoli paesi, sia nel tempo che nesso spazio.
E allora? Non cambierà nulla?
Penso che il Pil non vada sostituito ma integrato. Come già fanno per esempio gli olandesi, che quando pubblicano il dato del prodotto interno lordo comunicano anche la quantità di risorse ambientali usate.
Allo stesso modo si potrebbe corredare il dato con le informazioni sui cambiamenti degli squilibri sociali, sull’estensione della povertà.
Beh, la teoria neoclassica nega il rapporto tra ricchezza prodotta e squilibri economici, nella convinzione che quando si produce ricchezza gli squilibri sono solo temporanei.
È solo una teoria.
E infatti le autorità politiche cinesi pur essendo convinte che nel lungo periodo tutti i loro cittadini diventerannoricchi, sono attenti ad altre dimensioni, cercando di evitare che la crescita economica non accentui gli squilibri ambientali e sociali. Parlano così di “sviluppo armonico” e hanno scelto di valutare il progresso del paese in base ad una batteria di indicatori, comprendenti fenomeni economici, sociali ed ambientali.
Insomma, non più soltanto pochi dati di altissimo valore politico, ma che alimentano discussioni a non finire, come il Pil, l’indice dei prezzi o il tasso di disoccupazione, ma indicatori più articolati e condivisi.
Sì, questo punto della condivisione è particolarmente importante. I meccanismi tipo Millennium Development Indicators (l’esplicitazione statistica dei Mdg, ndr) o i parametri di Lisbona, in ambito europeo, hanno fatto il loro tempo perché la gente non li riconosce come propri, li ignora e non li vive come obiettivi condivisi. A differenza per esempio dei parametri di Maastricht, che l’opinione pubblica conosce e che sono diventati patrimonio comune dei Paesi, pur con le inevitabili discussioni sui loro adattamenti, che sono comunque un seno di vitalità. Bisogna tener conto che, negli Stati moderni, le politiche in larga misura non sono più fatte dai governi, ma dipendono da una serie infinita di centri decisionali intermedi, dalle imprese ai consumatori, dai movimenti no global ai gruppi religiosi. Ho sentito di recente Lester Brown, il fondatore del Worldwatch Institute, dire che dopo Katrina negli Stati Uniti è in atto un cambiamento radicale, perché la gente non crede più che il governo centrale sia in grado di risolvere i loro problemi. Ed infatti negli Usa ci sono Stati e anche singole città che hanno autonomamente accettato i parametri di Kyoto e sono nate centinaia di iniziative per determinare indicatori condivisi che misurano lo stato delle comunità locali.
Insomma, lei sogna una statistica che nasce da una domanda proveniente dal basso. Anche dai no global?
Sono stato invitato a parlare a Terra Futura, il raduno no global di Firenze. Ho cercato di fare questo discorso: so bene che voi rifiutate l’informazione che passa attraverso i media classici, ma mettiamoci d’accordo su una cinquantina d’indicatori che anche voi possiate riconoscere come rilevanti ed accurati, fermo restando il diritto di ognuno di attribuire più o meno importanza a ciascuna serie. La risposta è stata tutt’altro che negativa. Insomma, di fronte alla babele delle lingue è necessario ritrovare un minimo di realtà condivisa. Ho fatto la stessa domanda al direttore di Greenpeace a un convegno organizzato dall’Ocse a Bellagio presso la Rockefeller Foundation. Gli ho chiesto: il tuo “mondo” non verrà mai sul sito dell’Ocse che è vista come un’emanazione dei governi, ma se tu ti convincessi che mie statistiche sono ben fatte le mettessi sul tuo sito, così che i dibattiti tra le diverse “anime” della società discutessero a partire dagli stessi dati? Anche in questo caso la risposta è stata affermativa.
Via, la sinistra antagonista che discute sulla base delle statistiche, magari elaborate dalla Banca mondiale? Mi sembra impossibile.
Ed infatti io credo che questo processo possa essere affidato alla Divisione statistica dell’Onu e all’Ocse. L’Onu per la sua autorevolezza condivisa, l’Ocse per la capacità tecnica e l’autorevolezza scientifica che gli è riconosciuta.
Sono solo teorie o qualcosa si sta muovendo veramente?
Dopo il convegno di Palermo del 2004, che ha consentito la prima ricognizione mondiale sull’uso degli indicatori, ci avviamo verso un nuovo incontro a Istanbul nel 2007, preparato da una serie di forum regionali, uno per ciascun continente.
Con quale obiettivo concreto?
Uno dei possibili sbocchi è quello di arrivare al 2015, quando i Mdi andranno in pensione, con un nuovo set di indicatori che abbiano davvero carattere mondale e siano condivisi dall’opinione pubblica internazionale.
Insomma un obiettivo a dieci anni.
Sì, dieci anni che dobbiamo spendere per far nascere davvero una cultura del dato statistico, della confrontabilità internazionale, della misura del progresso secondo parametri condivisi, che abbiano certi punti in comune, ma che rispettino anche le diverse specificità culturali. Un sogno non molto diverso da quello di chi sviluppò, tanti anni fa, il concetto di Pil, nella speranza, divenuta realtà, di farne una misura universalmente utilizzata.
English: this is the text of my interview to Enrico Giovannini, chief statistician of Oecd, which was published (in the Italian and English edition; title of the latter: Statistical systems: inadequate, not fake) by the bi-monthly magazine EAST, Europe an Asia Strategies. I post it now because Giovannini has just announced the new international conference on statistics and democracy that will be held in Istanbul in June 2007, following the very successful conference promoted in Palermo in 2004 by Oecd.
About the international statistical standards see also the Un principles governing international statistical activities.
Salve,
Forse le interessera’ sapere che e’ appena uscita l’edizione italiana di How to lie with statistics con il titolo “Mentire con le statistiche”.
Maggiori informazioni su http://htlws.it