L’iniziativa era certamente commendevole: una giornata di studio organizzata il 25 marzo dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (Agcom) sul nuovo regolamento in materia di diffusione dei sondaggi. Ma al termine dell’incontro c’è da chiedersi se sia davvero possibile stabilire un minimo di serietà e correttezza in questo settore. Le analisi degli esperti hanno infatti confermato che i cosiddetti sondaggi d’opinione in materia politica ed elettorale sono in realtà ben poco attendibili perché basati su campionamenti fasulli e comunque non sono affatto indicativi di quegli scostamenti nel tempo sui quali invece si sbizzarriscono i commentatori.

Andiamo con ordine. Il nuovo regolamento, dopo un’ampia consultazione aperta a tutti gli interessati, è stato approvato dall’Agcom con delibera 256/10 del 9 dicembre 2010. Distingue tra le manifestazioni d’opinione (per esempio le consultazioni tra i lettori di un giornale), che non hanno alcun valore statistico, e i sondaggi d’opinione veri e propri, rilevazioni demoscopiche di tipo campionario con pretesa di scientificità. Questi ultimi, se pubblicati dai media, sono soggetti a un duplice vincolo: il soggetto realizzatore deve presentare un documento descrittivo, con tutte le informazioni tecniche necessarie (dimensione del campione, percentuale di risposta, margine d’errore) che deve essere pubblicato sul sito dell’Agcom o sul sito della Presidenza del Consiglio sondaggipoliticoelettorali.it nel caso, appunto dei sondaggi politici; da parte sua il giornale o il mezzo televisivo deve diffondere accanto al sondaggio una nota informativa più succinta, che non include per esempio il margine d’errore.

Il regolamento ha il pregio di rimettere un po’ d’ordine nella materia, ma non può sanare il vizio di fondo dei sondaggi, che è risultato con grande evidenza dall’analisi di un esperto come  Giorgio Marbach, rettore dell’Universitas Mercatorum delle Camere di commercio italiane e che nella sostanza nessuno ha confutato.

Seguiamo il ragionamento. Di norma, i sondaggi rappresentativi dell’elettorato italiano sono fatti su mille interviste. Già questo fatto comporta un margine di errore di più o meno 3 per cento (cioè il 95 per cento di probabilità che l’errore stia in quella forchetta) che inficia tutte le analisi basate per esempio sugli spostamenti dell’un per cento di voti da una settimana all’altro. Ma c’è di peggio, molto di peggio. Le interviste sono fatte col metodo Cati, cioè con telefonate ai telefoni fissi, e questo già esclude una fascia, soprattutto di giovani, che usano solo il cellulare. Non solo: per ottenere mille risposte è necessario chiamare da cinque a diecimila persone. Chi risponde è normalmente di livello culturale più elevato rispetto a chi rifiuta e anche questo è un elemento che falsa il campione. Ma proseguiamo. Su mille risposte, almeno quattrocento diranno che non andranno a votare, che non sanno, che voteranno scheda bianca. I risultati si costruiscono quindi su 6oo casi. Bastano cinque o sei persone per spostare il dato dell’un per cento! E una persona può valere uno 0,2% di spostamento.

Insomma, la verità è che i cosiddetti sondaggi scientifici non hanno nessun valore statistico, sono solo un gioco, al quale gli istituti demoscopici si prestano perché dà loro visibilità, ma che costituiscono una parte minima (non più del cinque per cento) del loro fatturato, che invece deriva da ricerche di mercato e altre commesse ben più ricche. Forse se si dicesse più chiaramente che questi sondaggi sono una patacca, anche gli istituti si preoccuperebbero di tutelare il loro buon nome. E i media? Alcuni giornalisti partecipanti al dibattito (Enrico Mentana, Giovanni Floris, Giovanni Valentini) hanno cercato di glissare affermando che la garanzia della validità di queste rilevazioni sta nella serietà degli istituti realizzatori. Insomma, si fa fatica a rinunciare a un giocattolo che fa audience.

C’è un’alternativa? Si possono fare sondaggi politici fatti bene? La domanda aleggiava sulla tavola rotonda tra i rappresentanti degli istituti di ricerca. La risposta più credibile l’ha fornita Remo Lucchi del Gfk Eurisko: si può ma costano un sacco di soldi. Se per esempio l’istituto intervistatore, invece di ricercare casualmente dei numeri telefonici, costruisce un proprio panel, statisticamente rappresentativo, di persone disponibili a essere intervistate e magari raggiungibili con un palmare concesso ad hoc, si possono avere rilevazioni molto più credibili. Ma la creazione di un panel di questo genere di 10/15mila persone comporta un investimento di 7/8 miliardi. Troppo per molti istituti, troppo per i media. E allora avanti con le patacche.

1 commento

  1. Mi torna alla mente un passo dell’esilarante “L’uomo di marketing e la variante limone”, in cui il geniale Walter Fontana ironizzava sul ‘rigore’ statistico che caratterizza certi sondaggi, nel marketing come nella politica:

    “La ricerca è stata effettuata su un campione mirato di nove consumatori, due dei quali non hanno risposto, uno perché all’estero, l’altro perché non era attento.
    Alla domanda: “Pensate che le aziende debbano intrattenere rapporti più stretti con le Grandi Istituzioni?”, si è avuto un 28,57% di Direi di No, contro un 42,85% di Assolutamente Sì, che unito al 14,28% di Forse Sì/Perché No, porta l’area del Consenso Potenziale al 57,13%. (il 57,13 è contornato da un cerchio fatto a pennarello).
    Il top management della Hax Corporation ritiene che questo atteggiamento favorevole dei consumatori al contatto con le Grandi Istituzioni sia destinato a durare nel tempo, considerata anche l’età media delle persone interrogate, sei anni”.

    La verità, come Lei osserva, è che un sondaggio fatto a regola d’arte (cioè con un minimo di rigore scientifico) è costoso. Un sondaggio “al risparmio” serve a poco, oppure – è il mio timore – serve a dare conferme a posizioni preconcette più che a scoprire come realmente la pensa il pubblico.

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