La Danimarca è davvero il Paese più felice del mondo? Così dicono quasi tutte le indagini degli ultimi anni sul benessere individuale, anche se condotte con metodologie diverse. Ma che cosa è la felicità? Come si misura? Le misurazioni sono comparabili tra Paesi dove magari i concetti stessi di felicità e benessere assumono valori differenti nelle lingue e nelle culture locali?

Confinato per anni nel dibattito tra esperti, il tema della misura del cosiddetto “benessere percepito” è diventato centrale per statistici ed economisti e lo sarà sempre più per i leader politici del 21° secolo. La crisi economica ne ha già oggi accentuato l’importanza. Si coglie meglio il fatto che ci sono altri valori oltre la crescita dei beni e servizi prodotti: la distribuzione della ricchezza, la solidarietà, la serenità sul futuro proprio, dei propri cari e dell’ambiente che ci circonda. La crisi, insomma, può essere il momento giusto per chiedersi che cosa conta veramente, come lo si misura, come si controllano i risultati dell’azione pubblica verso gli obiettivi comuni.

Di felicità e benessere si è discusso per cinque giorni, dal 19 al 23 luglio, nel corso della nona Isqols conference, il congresso di tutti i ricercatori che si occupano di “quality of life”. Il tema, come abbiamo detto, sarà anche al centro del World Forum promosso dall’Ocse su “Statistics, knowledge and policy” che si svolgerà a Busan, in Corea, dal 27 al 30 ottobre. La riunione, terza della  serie  dopo i Forum di Palermo nel 1974 e Istanbul nel 1977 (si veda il mio articolo su East n.  17), radunerà 1500 partecipanti di 130 Paesi e certamente offrirà nuovi spunti di riflessione sulla misura del progresso delle collettività umane. L’attenzione internazionale a questi temi è stata fortemente stimolata da Enrico Giovannini, il “chief statistician” dell’Ocse diventato ora presidente dell’Istat.

Si deve attribuire soprattutto a Giovannini il merito di aver promosso e organizzato dall’Ocse le grandi assise mondiali su “statistics, knowledge and policy”. Il neopresidente dell’ Istat fa anche parte della commissione creata dal presidente francese Nicolas Sarkozy per studiare un nuovo indice della crescita alternativo al Pil, la misura del prodotto interno lordo, cioè della ricchezza prodotta da  un Paese in un anno, che non è più sufficiente per misurare l’effettivo progresso.

La misura del Pil è indispensabile ma…

Dai tempi di Adam Smith, il nonno dell’economia moderna, si è sempre supposto che il funzionamento del sistema fosse determinato dal comportamento del cittadino che agisce come Homo oeconomicus, impegnato a massimizzare il proprio vantaggio individuale attraverso comportamenti razionali.

Le teorie più recenti hanno messo in discussione questo assunto. Il comportamento umano è influenzato dalle aspettative, che non sempre sono razionali; gli obiettivi non corrispondono sempre alla massimizzazione della ricchezza individuale.

Il primo a gettare il sasso nello stagno è stato l’economista Richard A. Easterlin della University of Southern California, il quale in un articolo del 1974 ha sostenuto che, una volta soddisfatti i bisogni primari, la felicità non cresce col crescere del reddito. Quali sono, allora, le determinanti del benessere individuale? Su questa domanda è nata “l’economia della felicità”, che si è arricchita di contributi interessanti. Molti seguaci di Easterlin, per esempio sostengono che la felicità dipende soprattutto dal miglioramento di status rispetto al resto della propria comunità (il ben noto “keeping up with the Joneses”, per dirla all’americana) oltre che da fattori relativi alla salute e alla vita sociale.

Il cosiddetto “Paradosso di Easterlin” è stato contestato da altri studiosi con ulteriori dati, ma è interessante registrare che il tema è apertissimo, anche per  le sue evidenti implicazioni politiche. Tuttavia sostituire il Pil è tutt’altro che facile. I tentativi di produrre altri indici complessi, come l’Human Development Index o l’Happy Planet Index si sono rivelati poco  influenti, almeno finora. Come ha scritto Dario Di  Vico intervistando Giovannini, “la monarchia del Pil sarà superata con un affiancamento democratico di altri indicatori, non con la detronizzazione.

Torniamo alla Danimarca. Perché è tanto felice? “I danesi attribuiscono con orgoglio il loro status di Paese più felice del mondo a un insieme fatto da una economia libera e ben gestita, alti standard di educazione, reti di protezione sociale e l’accoglienza aperta a chi viene da fuori”, ha scritto Business Week in una inchiesta che accompagna la presentazione di una recente  indagine. Ma c’è anche qualcosa di più: la “hygge” (si pronuncia huga), “un sentimento conviviale e rilassato basato su forti legami familiari”.

Ha aggiunto un lettore sul sito di Business Week: “la felicità  danese non dipende solo dalla hygge, ma anche dalla fiducia: nelle autorità, nel sistema giudiziario, nella polizia, negli insegnanti, nei dottori, nei vicini, perfino nei politici…”.

3 commenti

  1. Mi hai fatto conoscere tu le cose di Gilbert che sono molto interessanti. Lui si interroga sulle determinanti della felicità, con risultati sconvolgenti e sicuramente ne parlerò più avanti.Il mio post invece ruguarda le misure del benessere e della felicità. I due temi ovviamente sono intrecciati.

  2. salve,a tutti.
    Io vivo in Danimarca,e vi posso assicurare che non e’ cosi’.Regna l’egoismo,famiglie inesistenti di strutte dai tanti divorzi,circa il 50% ultimo sondaggio 1.10.2009. Livello di suicidio piu’ alti al mondo.come al solito,tutti i paesi che non sono ITALIA,le loro schifezze le sanno nascondere molto bene,e non si puo’ fare un sondaggio su quello che loro dicono,ma bisognerebbe vivere in questo paese,per poter giudicare.Qui non paghi l’iva e ti becchi 30 anni di galera ,ammazzi 2 bambini e la madre ti danno al massimo un anno e mezzo,e se ti comporti bene sconti la meta’.Un paese pieno di contradizioni.

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