Che cosa succederà in un mondo in cui scaricare contenuti da Internet senza pagarli non è più considerato un comportamento riprovevole ed è praticamente impossibile perseguire i “pirati”? Mi ero già occupato di questo tema in due post di questo blog, ma l’ho sviluppato in un articolo che ho scritto insieme a mio figlio Pietro Speroni di Fenizio per East, Europe and Asia Strategies. L’articolo è stato pubblicato nel numero di giugno della rivista sotto il titolo: “Informazione: si rischia la crisi di abbondanza”. Ecco il testo, corredato di qualche link ipertestuale.
L’opinione pubblica associa l’Unesco ai “patrimoni dell’umanità”, l’affascinante lista dei siti culturali e naturalistici di tutto il mondo che devono ad ogni costo essere preservati. Pochi invece si ricordano che la United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization è stata negli anni ’70 e ’80 il terreno di scontro di feroci battaglie tra chi difendeva la libertà di stampa e chi sosteneva che in realtà questa libertà nascondeva il monopolio dei media occidentali, liberi di “disinformare” i paesi comunisti e quelli in via di sviluppo.
Vecchie storie. Oggi anche i Paesi che erano usciti dall’Unesco sbattendo la porta, come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, sono tranquillamente rientrati. I problemi della governance globale in materia d’informazione e di cultura sono completamente cambiati. Le battaglie del passato rispecchiavano infatti un mondo nel quale pochi grandi produttori di contenuti dominavano la scena dell’informazione, dell’intrattenimento e della cultura. Le grandi agenzie di stampa stabilivano quali erano le news importanti a livello internazionale. Pochi magnati monopolizzavano le catene di giornali e televisioni in molti Paesi, le grandi case discografiche forgiavano i gusti del pubblico imponendo i loro cantanti, le major cinematografiche producevano gli unici film destinati a circolare nelle sale, le riviste scientifiche quotate a livello internazionale erano il passaggio obbligato per ottenere credito nelle università.
Oggi, invece, la rivoluzione che passa attraverso le nuove tecnologie ha cambiato tutto. Due forze formidabili stanno trasformando il mondo della proprietà intellettuale e quello dell’informazione in tutte le sue forme: il moltiplicarsi dell’offerta “dal basso” e l’impossibilità di difendere il diritto d’autore.
Chiunque può accedere, in modo più o meno legale, ma comunque efficace, ai “contenuti creativi” presenti nei siti. La televisione satellitare ha messo a dura prova i tentativi di censura dell’informazione da parte dei paesi più autoritari. La comunicazione attraverso i cellulari ha reso impossibile il controllo delle telefonate da una postazione centrale. Nel nuovo mondo dell’informazione scambiata “dal basso” cambiano i modelli di business e gli stessi prodotti offerti alla fruizione del consumatore.
La rivoluzione non è cominciata oggi, ma la crisi accelera il cambiamento, che porta a risultati economici, sociali, politici ancora difficili da immaginare. Possiamo cercare di sintetizzare le spinte all’innovazione in quattro grandi fenomeni.
1) La produzione di contenuti dal basso. La Rete ha abbassato drasticamente i costi per comunicare agli altri le proprie creazioni. Testi, musica e filmati possono essere messi in circolazione da chiunque. I blog sono diventati una forma di giornalismo che non sostituisce i media veri e propri, con la loro professionalità, ma che copre spazi sconosciuti a questi ultimi. Nascono anche nuove forme di comunicazione, attraverso lo scambio di idee nei social network come Facebook. La catena di Sant’Antonio di Twitter, messaggi brevi diffusi istantaneamente ai propri amici via cellulare, batte sul tempo le grandi agenzie di stampa. Attraverso Twitter si sono avute le prime notizie sugli incendi in Australia e quelle sull’attentato di Mumbai. La regina Rania di Giordania ha raccontato la visita del Papa attraverso una successione di messaggini su questo programma.
Si può discutere all’infinito sulla qualità spesso scadente delle comunicazioni che viaggiano attraverso questi mezzi, sulla banalità di milioni di commenti perché tutti si sentono in diritto di dire la loro su tutto e alla fine nessuno li legge. Ma è certo che nel complesso la circolazione dei messaggi fa opinione, occupa tempo finora dedicato alla televisione o ai giornali, dà a ciascuno la speranza (o l’illusione) di farsi sentire anche in un mondo di sette miliardi di persone. Non va dimenticato che, alla faccia dei tanti discorsi, anche giusti, sul digital divide, cioè sulla suddivisione del mondo tra chi ha e chi non ha accesso alla Rete, Internet è oggi il più formidabile strumento di progresso culturale per centinaia di milioni di persone nei Paesi in via di sviluppo, che prima erano condannate a vivere nel chiuso dei loro villaggi o al massimo ad informarsi attraverso la radio o la televisione di regime.
Del resto la qualità della produzione “dal basso” non è sempre scadente: nascono anche nuove forme d’arte, come i filmini su YouTube realizzati anche da artisti professionisti (raccomandiamo “I promessi sposi in dieci minuti” degli Oblivion) oppure le short stories su Twitter, con il rigido limite di 135 battute, spazi inclusi. Tutto all’insegna della brevità estrema.
2) I motori di ricerca e gli aggregatori. Di fronte alla grande massa di notizie, di prodotti, di stimoli che giungono dalla rete, come ci si può orientare? Una risposta classica è data dall’autorità della fonte. Se per esempio cerco dei dati, posso supporre che quelli di un istituto di statistica, o di una qualificata organizzazione internazionale siano più attendibili di altri pescati a caso in internet, magari senza nessuna spiegazione sulla metodologia.
Non è questa, però, la soluzione che va per la maggiore. L’utente di oggi si basa soprattutto sul consenso degli altri fruitori. Il metodo più noto è rappresentato dai motori di ricerca come Google, il cui algoritmo favorisce le pagine più linkate da altri siti.
Un sistema più sofisticato consiste nell’identificare noi stessi i blog o i siti che ci interessano e “abbonarci” ai loro aggiornamenti attraverso gli “rss feed” cioè dei software che ci dicono quando compare qualcosa di nuovo. Oppure possiamo avvalerci di aggregatori (come Digg o Delicious) che ci indicano, per ciascun argomento, quello che gli altri utenti hanno considerato interessante. Insomma, esistono sistemi per i quali ogni giorno, se il mio interesse è orientato verso un determinato argomento, posso ricevere le newsletter più aggiornate, sapere che cosa hanno pubblicato sui loro blog gli autori più importanti e anche che cosa è stato ritenuto meritevole di menzione da altri cultori della stessa materia. Non c’era mai stata, in passato, una così ampia e contemporanea disponibilità d’informazioni su temi specifici.
3) Il cambiamento dei diritti di copyright. C’era una volta il copyright, la difesa dei propri prodotti dell’ingegno contro chiunque se ne volesse appropriare. Era una tutela per gli autori, ma anche un freno ad avvalersi dei prodotti altrui per migliorarli nell’interesse di tutti. Nell’ultimo decennio si sono diffuse varie forme di “copyleft”, sintetizzate nelle varie formule di “creative commons”: anziché vincolare il mio prodotto, posso metterlo a disposizione di tutti (come accade per i software liberi), oppure porre come condizione che i nuovi apporti riconoscano la paternità del prodotto di partenza, oppure ancora che non servano a fare un prodotto commerciale. Il risultato complessivo di questo processo è stato quello di una grande liberalizzazione dei prodotti scambiabili in modo virtuale, un impulso alla ricerca di miglioramenti, un abbassamento dei costi anche da parte dei detentori del copyright per evitare il rischio di essere comunque copiati. La rivoluzione culturale consiste invece nell’aver messo in discussione il valore etico del diritto d’autore, delineando l’utopia di una società in cui tutti mettono i loro prodotti a disposizione di tutti. Una sorta di comunismo che è fallito nel mondo reale ma che nel virtuale potrebbe avere qualche possibilità di realizzarsi.
4) Il peer 2 peer. Sul web infuria la guerra contro la pirateria. I detentori di copyright (soprattutto le case discografiche e i produttori cinematografici) sono scatenati da anni per bloccare il peer 2 peer, cioè quei software che consentono di trasferire “da pari a pari” tra gli utenti musica, film o testi protetti. E’ di poche settimane fa la notizia della condanna a un anno di prigione da parte di un tribunale di Stoccolma per complicità nella violazione di diritti d’autore dei quattro giovani che con il sito svedese “The pirate bay” hanno facilitato gli scambi formalmente illeciti. “Don’t worry”, hanno risposto i pirati sul loro sito. E hanno invitato tutti i sostenitori a versare via internet una corona svedese (circa dieci centesimi di euro) a Danowsky and Partners, i legali che difendono le case discografiche. Ogni versamento avrà un costo bancario ben maggiore del beneficio: “l’impresa Danowsky spenderà milioni di sterline per processare pochi spiccioli”, ha spiegato il Guardian.
Insomma, ormai il peer 2 peer è diventato un fenomeno così esteso da mobilitare milioni di persone e da trasformarsi in un partito politico in Svezia e in altri Paesi europei. Non solo il giornalista Luca Neri, ma persino l’ex direttore dell’Economist, Bill Emmott, sono convinti che alla fine i pirati vinceranno, perché nessuno, soprattutto tra i giovani, considera “non etico” scaricare contenuti e nessuno è disposto a rinunciare a questa opportunità. Restano da vedere i tempi e i modi di questa vittoria.
Tutto gratis? La novità sconvolgente di questa nuova economia basata sullo scambio dal basso è la sua quasi completa gratuità. Buona parte della gente che scrive, immette video su YouTube, e scambia file da pari a pari lo fa senza aspettarsi alcun corrispettivo economico. Si crea in questo modo una nuova economia che sfugge alle misurazioni statistiche tradizionali: non c’è dubbio che un sistema sociale ed economico ricava valore aggiunto anche dalla interazione in rete tra i suoi membri; però questo valore non verrà misurato nel calcolo del Prodotto interno lordo perché non corrisponde a un prezzo né (come nel caso delle pubbliche amministrazioni) al costo di uno stipendio necessario per produrlo.
Questa difficoltà statistica è in realtà soltanto il sintomo di una realtà finora poco esplorata: in molti settori, la Rete cambierà totalmente le regole del gioco. E’ difficile per ora intuire la portata di questa rivoluzione, però possiamo provare ad esplorarne alcuni aspetti settoriali.
L’industria discografica. Facciamo qualche ipotesi, cominciando dal settore dove questo fenomeno è più diffuso: la musica. Che succederebbe se ogni canzone, ogni brano musicale, fosse liberamente scambiato in rete? Due cose, dicono i fautori del peer 2 peer: la prima è che anziché puntare su pochi gruppi musicali sponsorizzati dai discografici, il fenomeno della “coda lunga” consentirebbe a più gruppi di farsi conoscere. La “coda lunga” è un concetto ormai ben noto del marketing on line: mentre per esempio un negozio fisico di libri o di cd può esporre un limitato numero di prodotti e quindi punterà sulle poche centinaia maggiormente vendibili, in un negozio on line, con costi di esposizione quasi pari a zero, si può anche continuare a “esporre” un libro che vende una copia all’anno, sempre che, si intende, ci sia poi qualcuno in grado di effettuare la consegna fisica, se e quando quel libro verrà ordinato. Nel caso della musica non c’è neppure questo problema logistico: ogni autore può mettere in vetrina la propria musica sui portali specializzati o sul proprio sito e aspettare il successo, attraverso il tam tam dei fruitori.
Già, ma come camperano i musicisti? Sia quelli ai quali il successo arriderà davvero, ma che non avranno più le royalties sulle loro canzoni, sia gli altri, quelli meno cliccati? Risposta dei fautori del peer 2 peer: darebbero meno soldi alle case discografiche, puntando invece su concerti, edizioni di pregio e libere donazioni dei fan, come sta già avvenendo per alcuni gruppi che hanno fatto la scelta della musica “free”. D’altra parte, oggi il mondo della musica si divide tra pochi cantanti superpagati e “pompati” dalle case discografiche e una grande massa di musicanti che fa la fame. Non è detto che nel mondo dei pirati questa massa starà peggio; anzi, avrà l’opportunità di far conoscere la propria produzione senza l’intermediazione dei discografici e magari guadagnerà di più.
Il cinema e la televisione. E il cinema? Come sopravviverà l’industria cinematografica se tutto diventasse liberamente scaricabile? Qui le risposte sono ancora più problematiche. Si salverebbe probabilmente il grande cinema legato alla fruizione collettiva, cioè i film che è comunque bello vedere in una grande sala con altri spettatori, avvalendosi delle tecnologie visive e sonore più avanzate. Si spiega così, per esempio, il rilancio dei film tridimensionali con gli occhialini, che qualche decennio fa erano stati un flop.
Alla fine però è probabile che il risultato complessivo sia un ridimensionamento del costo e del numero dei film, con meno effetti speciali e attori meno pagati (tranne i pochi destinati ai grandi successi nelle sale). Avremo film più corti e magari interrotti dalla pubblicità…. in pratica sarebbe un appiattimento su produzioni di tipo televisivo, in linea coi gusti del pubblico giovane che cerca spettacoli brevi e “si stufa” a vedere un film di due ore.
Non è detto che sia un bene. Certo ci sono anche i filmini di You Tube, ma non è la stessa cosa. Forse si dovranno rafforzare i correttivi pubblici in difesa del cinema di qualità.
I media. Le grandi reti televisive generaliste stanno avendo dei problemi, col frazionarsi dell’utenza in centinaia di canali tematici e il conseguente crollo della pubblicità. Ma la crisi più grave e immediata riguarda i media cartacei. Il dibattito è esploso proprio in queste settimane, perché, dopo il tracollo dei settimanali avvenuto già da qualche anno, la presa di coscienza della irreversibile crisi dei quotidiani si è ormai diffusa tra gli addetti ai lavori. Non è un caso che i due nuovi direttori del Corriere della Sera e della Stampa, in carica da poche settimane, abbiano fatto riferimento entrambi all’importanza dell’edizione on line, accingendosi ad affrontare un periodo di duro contenimento dei costi del giornale cartaceo.
La partita però è tutt’altro che facile, come dimostra quello che sta succedendo negli Stati Uniti, dove diversi giornali, a cominciare dal Christian Science Monitor, hanno chiuso o si sono limitati alla edizione on line. Il New York Times offre in affitto la prestigiosa sede progettata da Renzo Piano, mentre si scopre che il giornalista che quest’anno ha vinto il premio Pulitzer è stato licenziato dalla testata per riduzione di personale. E il Washington Post oggi fattura di più nel settore della scuola e della formazione che con l’editoria.
L’on line salverà il giornalismo? Non è detto, almeno per due ragioni. Le edizioni informatiche dei giornali sono infatti il frutto di un fallimento: sono quasi sempre modeste perché rispecchiano l’incapacità di tutti gli editori di trovare un modello di business adeguato per finanziare i giornali in rete. Lo spiega Clay Shirky, un esperto internazionale che si occupa degli effetti economici di internet, in un suo recente articolo. Solo il WSJ ha trovato modo di finanziarsi facendo pagare l’abbonamento on line, ma si tratta di un giornale specializzato, destinato a un pubblico di professionisti. Quando un giornale si limita all’edizione on line, licenzia un gran numero di redattori perché sostanzialmente taglia il business.
La seconda ragione è che in un mondo che non ha più limitazioni territoriali, tutti tendono a utilizzare chi offre il servizio migliore, mettendolo sostanzialmente in posizione di monopolio. Accade con Google tra i motori di ricerca, per Facebook per il social networking, per la Bbc per l’informazione globale. Le differenze linguistiche consentono ancora spazio ad altri media on line, ma la tendenza inequivocabile è a una grande concentrazione a danno dei più piccoli. Ma anche la Bbc corre pericoli, perché l’utenza giovane non si rivolge soltanto a una singola fonte di notizie, per quanto qualificata, ma usa software di confezionamento come Google News, che consentono di organizzarsi il proprio giornale sulla base dei propri interessi.
E’ facile capire, peraltro, che con questo modo di fare informazione il concetto di obiettività diventerà ancora più sfumato. Nei media tradizionali esiste o dovrebbe esistere l’etica professionale del giornalista a garanzia del rispetto della verità e dell’uso corretto delle fonti. Ci sono organi professionali (come in Italia l’Ordine dei giornalisti) che dovrebbero garantire il rispetto di queste regole. Nessun giornalista (almeno in teoria) può inventarsi di sana pianta una notizia per vendere di più. Nel caso dei blog questo limite professionale non esiste. Ci sono bloggisti anche più corretti di molti giornalisti e altri che fanno un uso totalmente distorto e delirante dei fatti. La distinzione di qualità è totalmente affidata all’utente.
Ma attenzione: la scomparsa del giornalismo come noi lo conosciamo lascerà un gran vuoto. Come scrive lo stesso Shirky, “oggi i media cartacei fanno gran parte del lavoro di ricerca giornalistica, dalla copertura di ogni possibile aspetto di una grossa storia d’attualità al tran tran della cronaca del consiglio comunale. Questa copertura crea benefici per tutti, anche per chi non legge i giornali, perché il lavoro dei giornalisti della carta stampata è usato da tutti, dai politici ai pubblici ministeri, dagli ospiti di talk show ai bloggers”. Che cosa succederà se questo genere d’informazione si ridurrà drasticamente? “Non lo so. Nessuno lo sa”, risponde Shirky. Ma apre uno spiraglio. “La società non ha bisogno di quotidiani. Ha bisogno di giornalisti. Per un secolo, gli imperativi di rafforzare il giornalismo e di rafforzare i quotidiani sono stati connessi così strettamente da non potersi distinguere. Andava bene così, ma adesso la situazione sta cambiando sotto i nostri occhi e avremo bisogno di molti altri modi di rafforzare il giornalismo”. Quali modi? Come si potranno rafforzare le capacità professionali e la capacità di copertura degli eventi da parte di un esercito di “dilettanti trasformati in ricercatori e scrittori”? Shirky parla di sponsorizzazioni e donazioni. Si potrebbero anche immaginare altri strumenti più istituzionali e obiettivi: per esempio, analogamente alle convenzioni dello Stato con agenzie di stampa o radio per che in Italia servono a garantire la copertura di certi tipi di notizie (cronache parlamentari, notiziari regionali e altro) le amministrazioni potrebbero stanziare una certa cifra a favore dei blogger che garantiscono la copertura delle cronache locali. E’ solo un’ipotesi, ma qualcosa in questa direzione potrebbe avvenire.
I libri. Mentre le esperienze di romanzo collettivo si moltiplicano, anche con risultati interessanti, su www.wdl.org è stata lanciata la più grande biblioteca on line del mondo. Per ora è poca cosa, ma esploderà, anche perché ha la collaborazione di molte biblioteche nazionali. Vale per le opere non più coperte da copyright, ma per le altre?
Più o meno sarà la stessa cosa: se il libro è scaricabile a pagamento dalla rete come pdf, è anche scambiabile; se non lo è, c’è qualcuno che lo mette in rete lo stesso e a quel punto il peer 2 peer lo diffonde gratuitamente. A volte non per sfregio, ma per amore dell’opera e del suo autore, come l’adolescente che traduceva Henry Potter prima che uscisse l’edizione nazionale, mettendo in crisi l’editore che però non se la sentiva di punirlo.
Anche se i nuovi lettori di libri elettronici stanno migliorando in modo significativo, il libro cartaceo è certamente meno minacciato di altri prodotti. Rimane un oggetto di culto, che si può sottolineare, magari facendo un orecchio su una pagina per ricordare qualcosa. Insomma ce ne separeremo con maggiore difficoltà rispetto ai Cd o anche ai giornali. Come afferma Neri nell’intervista qui a fianco, gli editori hanno un po’ di tempo in più per ripensare una strategia.
Il mondo accademico. Non tutti i libri, però, devono essere letti dall’inizio alla fine. Per i ricercatori e gli accademici, prevale invece la necessità di consultare una pluralità di volumi e leggere poche pagine per ciascuno di essi, senza necessità di stamparle, magari estraendo una sola citazione per la propria bibliografia.
Questo processo è fortemente facilitato da nuovi software che consentono di scaricarsi centinaia di testi ed effettuare una ricerca parallela sulla base di alcune parole chiave, ottenendo un panorama bibliografico che in passato avrebbe richiesto mesi di lavoro. Come procurarsi i testi necessari? Anche il mondo dell’università si divide tra chi è costretto a pagare e chi ha tutto gratis. La bilancia dei successi accademici propende fortemente per questi ultimi.
Le riviste specializzate si dividono in due categorie: quelle, normalmente le più paludate, che si fanno pagare profumatamente per consentire il download (una media di 25 euro per un singolo articolo!) e quelle che invece sono liberamente scaricabili e che magari fanno pagare gli autori per poter pubblicare i loro pezzi.
Succede pertanto che ci sono studiosi isolati che devono spendere molti soldi per costruirsi un minimo di bibliografia ed altri che hanno accesso gratuito a librerie universitarie e che praticano anche un peer 2 peer con i loro colleghi, scambiandosi gratis gli articoli ufficialmente a pagamento. E’ ovvio che i ricercatori che possono avvalersi di questo metodo e che hanno accesso illimitato agli articoli, magari illegalmente, pubblicano di più e sono avvantaggiati nella carriera universitaria.
Quali saranno gli effetti sulla qualità della cultura? Positivi per la maggior circolazione delle idee o negativi perché la visibilità farà premio sull’investimento per approfondire? Difficile dirlo: nelle rivoluzioni non tutto è meglio dell’ancient regime. Però le rivoluzioni sono difficili da fermare.
Donato Speroni
Pietro Speroni di Fenizio