All’inizio del 1968, quando il mondo giovanile stava per vivere la più grande ribellione collettiva del secolo, io avevo 25 anni ed ero capo dell’ufficio stampa della Esso Standard Italiana. Ero certamente un giovane sveglio, favorito dalla conoscenza dell’inglese: da ragazzo avevo trascorso dodici mesi nel Nebraska con una borsa di studio dell’American Field Service, poi a 19 anni avevo lasciato Milano per Roma, con un lavoro come operatore alle telefoto dell’Associated Press, ma soprattutto con la voglia di vivere da vicino l’avventura del primo centrosinistra, con Ugo La Malfa al ministero del bilancio. Non avevo le idee chiare, ma ero un giovane repubblicano e “volevo esserci”.
Sempre grazie all’inglese, a 20 anni ero entrato all’Agenzia Italia (Agi) e a 22 ero diventato giornalista professionista. Due anni dopo, però, l’Agi mi aveva licenziato: una decisione che mi sembrò inevitabile, visto che l’Agi doveva ridurre il personale (l’Eni non aveva ancora comprato l’agenzia) e io ero il giornalista più giovane. Ma i miei genitori non c’erano più, io dovevo lavorare e volevo metter su famiglia: fu così che, dopo il servizio militare e la laurea in scienze politiche presa nel frattempo, mi ritrovai alla Esso, in quella grande scuola che fu la Direzione relazioni pubbliche di Lorenzo Cantini, che impegnava l’azienda su progetti di grande respiro, col pieno appoggio del presidente di allora, Vincenzo Cazzaniga. Lavoravo per una multinazionale senza nessun senso di colpa, anzi sentendo che in quel momento eravamo i costruttori di una cultura più avanzata e internazionale rispetto all’Italia. Avevamo un tigre nel motore, come diceva la pubblicità dell’epoca. Convinsi Cantini a farmi organizzare nei licei delle lezioni sperimentali di economia sponsorizzate dalla Esso e tenute da giornalisti economici di chiara fama. Andai a chiedere consiglio sull’iniziativa a un grande economista, Ferdinando di Fenizio, e fu così che mi fidanzai con sua figlia Myriam, che sarebbe diventata mia moglie e la madre di Pietro, il mio primo figlio.
Nel giugno del 1968 mi dimisi dalla Esso perché volevo ritornare a fare il giornalista. Lasciai Roma, mi sposai e andai a vivere con Myriam a Cinisello Balsamo, nell’hinterland milanese, dove l’editore Palazzi stampava il mensile economico Successo diretto da Gianni Baldi, altro grande maestro della mia vita professionale. Ne approfittai per aprire a Cinisello una sezione del Partito repubblicano italiano. Volevo lavorare con gli immigrati e la chiamai “Martin Luther King”. Il mio entusiasmo creava diffidenze sia nei repubblicani tradizionali che non capivano questo pericoloso esotismo, sia negli immigrati meridionali che non volevano essere paragonati ai negri. I quali allora, consentitemi la digressione, si chiamavano tranquillamente “negri” perché a differenza del dispregiativo inglese “nigger”, da noi “negro” non è mai stata una parola offensiva.
Mi dilungo su questi particolari autobiografici per inquadrare la mia ambivalenza di giovane riformista. Del movimento del ’68 condividevo, dall’esterno, molte aspirazioni. Il mio cantante preferito era Giorgio Gaber, il Gaber prima maniera, carico di speranze e di ideali. Ascoltavo con gli amici i Cantacronache; speravo anch’io di fare qualcosa di socialmente utile. Ma credevo fermamente che il sistema si dovesse cambiare e non abbattere; le mie idealità non erano certo quelle del libretto rosso di Mao, ma quelle dell’America kennediana, ancora molto forti all’epoca (Robert Kennedy fu ucciso nel ’68); la falce e martello provocava in me una diffidenza pari a quella per la fiamma tricolore.
Quarant’anni dopo, penso che quell’ambivalenza sia stata salutare perché mi consentì di avere degli ideali senza distaccarmi dalla realtà. Arrivo a pensare che anche oggi un po’ di ambivalenza sia indispensabile per costruire un mondo migliore.
La crisi economica che stiamo vivendo è molto grave, ma mi sembra soprattutto preoccupante l’illusione che si possa uscirne attraverso qualche scorciatoia. Lo slogan “non pagheremo noi la vostra crisi” mi sembra altrettanto utopistico quanto il sessantottino “vietato vietare”.
C’è in giro la pericolosa illusione che il futuro non debba essere caratterizzato da un mercato globale governato, ma da altre soluzioni: forse un ritorno a uno statalismo protettivo, nel quale il ruolo dello Stato si spinge ben al di là dei necessari interventi temporanei di queste settimane. Si sogna un sistema in cui “qualcuno” si prende comunque cura di te, non soltanto nel senso di proteggerti contro la povertà, le malattie, il degrado ambientale, come deve fare un moderno sistema basato sull’equilibrio tra poteri pubblici e mercato, ma nel senso di essere in grado di fare le scelte ottimali per i cittadini. E’ legittimo perseguire la riforma del sistema; ma quando non si hanno le idee chiare su un percorso riformista, c’è sempre la pericolosa illusione del “tanto peggio tanto meglio”: lasciamo che il sistema collassi, così i “cattivi” pagano, poi si vedrà; senza rendersi conto che il collasso del sistema sarebbe un disastro per miliardi di persone.
Questa crisi in Europa è crisi psicologica, d’idee e di valori, ancor prima che economica. L’eccesso di finanza di questi anni ha portato a molte assurdità: le forme eccessive e perniciose di credito al consumo, i mutui subprime per comprarsi la casa, le speculazioni sui derivati, i compensi vergognosamente alti dei capi delle istituzioni finanziarie poi collassate. Queste aberrazioni non vanno però confuse con le regole stesse del sistema economico, disconoscendo la funzione fisiologica della finanza per portare il risparmio verso investimenti produttivi.
C’è molto da riformare, nel sistema globale e per farlo ci vuole fantasia creativa, coraggio, e idealità. Ma la soluzione non è “un non sistema”, in cui l’allocazione delle risorse è decisa da un soggetto che cura i nostri interessi, senza saper definire se si tratta di un Grande fratello, di un ritorno al socialismo reale o di forme di economia tribale. C’è in giro una confusione che, oggi come nel ’68, è favorita dalla diffidenza nei confronti del sistema economico in cui viviamo. L’economia va riformata, dopo le follie iperliberiste di questi anni: con gli amici di Società aperta lo diciamo da anni, chiedendo “più stato, più mercato, più Europa”. Ma oggi come nel ’68, è anche fondamentale insegnare a tutti come funziona questa insostuibile economia globale. Non si può buttar via l’auto perché abbiamo sbagliato benzina: meglio mettere nel motore il tigre giusto.
Certo il razzismo in USA e quello italiano non sono minimamente paragonabili, visto che noi non abbiamo mai avuto né la schiavitù né il successivo problema dell’integrazione dopo la sua abolizione (con apartheid, annessi e connessi), ma dire che la parola negro nel tuo ’68 non avesse una valenza dispregiativa non mi convince del tutto. Certamente non come in USA (un po’ scontato d’altronde), però certamente usata con paternalismo e inappropriatezza, visto che in italiano il colore è il nero, non il negro (l’uso di razza negra è un termine antiquato coniato probabilmente nell’800 e usato anche in prospettiva economico-geografico-antropologica da gente che riteneva la razza bianca superiore) e che il bianco è bianco e non è mai stato branco, come forse, facendo notare lo slittamento verso il concetto di ‘gruppo bestiale’, sarebbe forse risultato più appropriato per caratterizzare certe persone; magari non per chi organizzava gruppi di integrazione come voi ma certamente per quella parte di cultura tradizionale paternalista e profondamente razzista che purtroppo scorre nelle teste di tanti e tanti italiani, sangue vecchio e nuovo, anche inconsapevolmente. Purtroppo ancora oggi, dove finalmente ci sono persone che riconoscono il valore di culture/persone differenti dall’occidentale senza ritenerle inferiori o più primitive a livello evolutivo, ci sarà qualcuno che leggendo il tuo blog troverà una giustificazione all’uso della parola ‘negro’, senza rendersi conto, che se nel ’68 voi credevate che fosse priva di qualunque giudizio negativo, oggi non è proprio più così.