Come c’immaginiamo la democrazia nel 21° secolo? Certamente la gente non si accontenta più di esprimere la propria partecipazione alle scelte collettive attraverso un voto ogni quattro o cinque anni. D’altra parte la democrazia diretta, oggi tecnicamente possibile grazie alla rete, sarebbe un disastro perché gran parte dei cittadini non sono e non vogliono essere adeguatamente informati. E allora? Sono in corso esperimenti interessanti di “democrazia per sorteggio” (un gruppo di cittadini viene informato adeguatamente per decidere: come nel caso dei giudici popolari) e nel frattempo si affermano altre forme di pseudo democrazia mediate dalla televisione, da internet, dalle primarie… Forse l’unica parziale risposta consiste nel moltiplicarsi delle organizzazioni dal basso che offrano ai cittadini una risposta alla voglia di partecipare e di discutere che un tempo si esprimeva attraverso i partiti. E nel taglio dei livelli di politica professionale: perché retribuire i consiglieri municipali, comunali o provinciali?How do we imagine democracy in the 21st century? I don’t think that the system of electing political representatives for four or five years, as envisaged two hundred years ago, is still satisfactory for the citizens of modern states. On the other hand the forms of direct participation, now technically possible through the Net, are very dangerous because the majority is uninformed and tends to decide without considering all the aspects of each issue. Other systems are under trial: “democracy by ballot” (a group of citizens is chosen to get informed and decide on each issue), “democracy by media”, mobilizing people through television or internet, or “primary voting” on very general issues, just to confirm a ruling class that has already been selected. Each system has its own defects. Probably the only possible, even if partial, answer is democracy through the multiplication of local initiatives offering to the citizens a place to debate, as once it happened in the party meetings. It’s a process just starting in Italy, but the demand for participation is high.
Siamo tutti sinceri democratici, vorremmo che la democrazia si diffondesse pacificamente nel mondo… Sì, ma quale democrazia? Pensiamo veramente che stiamo andando verso un futuro nel quale i cittadini di un numero crescente di Paesi applicheranno i canoni della democrazia settecentesca, votando ogni quattro o cinque anni per scegliere i rappresentanti che dovranno governarli e poi se ne staranno buoni e zitti ad aspettare le prossime elezioni? Temo che la situazione sia un po’ più complessa.
Intanto mi sembra ormai chiaro che una nostra speranza si è infranta: il progresso economico non è di per sè uno stimolo a una maggiore democrazia. Possiamo anche prevedere che in un futuro non lontano almeno tre miliardi di abitanti della terra godranno il frutto dell’economia globalizzata, ma questo non significa che avremo tre miliardi di democratici. Anzi, in certe condizioni è molto più facile per i regimi autoritari sfruttare appieno le opportunità della globalizzazione, senza troppi scrupoli di diritti umani e senza perdere troppo tempo in dibattiti interni: la Cina insegna.
Però noi, anche se la battaglia diventa più difficile, siamo democratici perché vorremmo che la gente di ogni comunità partecipasse alle scelte che la riguardano. E allora dobbiamo porci il problema di quali possono essere i meccanismi di decisione politica e di selezione della classe dirigente per i quali battersi nel 21° secolo: un discorso tutt’altro che astratto anche per l’Italia, perché va a impattare sui temi della politica e dell’antipolitica, del partito senza tessere di Walter Veltroni, del difficile rapporto tra cittadini e politici professionisti.
Proviamo a fissare alcuni punti. Innanzitutto, io non credo che la gente si accontenti più di prendere decisioni politiche attraverso la scelta di propri rappresentanti una volta ogni tot anni. Il livello di informazione, anche se superficiale, la continua percezione che i propri interessi sono in gioco, alimentata dai media, creano una forte e indistinta domanda di partecipazione.
La seconda, paradossale considerazione è che mai come oggi la democrazia diretta sarebbe tecnicamente praticabile. In una comunità nella quale tutti i cittadini sono in rete, tutti potrebbero votare su tutto; oppure, modificare la scelta del proprio rappresentante nelle assemblee elettive tutte le volte che questi si comporta in modo difforme dai loro desideri. Sappiamo però (o almeno la stragrande maggioranza di noi ne è convinta) che questo tipo di sistema sarebbe il peggiore possibile, perché i cittadini deciderebbero sull’onda delle emozioni, senza approfondire adeguatamente le decisioni da prendere, che spesso sono tecnicamente molto complesse. Fare seriamente politica significa essere disponibili ad assorbire non solo una informazione mediatica superficiale ma a studiare questioni che hanno molto sfaccettature e richiedono la mediazione tra molti interessi.
E allora? Come risolvere il dilemma che si crea se i cittadini non hanno più fiducia in una delega in tempi medio lunghi (quattro o cinque anni) a rappresentanti scelti democraticamente, ma al tempo stesso non sono in grado di decidere da soli? Io credo che questo sia il dilemma politico di questo secolo. Un tentativo di risposta è quello degli studiosi che come Luigi Bobbio cercano di formare assembleee statisticamente rappresentative dell’universo dei cittadini. I membri di queste assemblee, un po’ come i giudici popolari, vengono messi in condizione di avere tutti gli elementi per prendere una determinata decisione (il che vuol dire che devono anche essere pagati per fare per un certo periodo quel lavoro a tempo pieno). La deliberazione di quest’assemblea servirà poi come parere consultivo per i politici; oppure avrà direttamente valore deliberativo.
E’ il sistema della “democrazia per sorteggio”, un sorteggio guidato da criteri attenti di campionamento. E’ facile però vederne tutti i rischi e il dibattito aperto sulla rivista Una Città li ha messi bene in chiaro. Chi forma il campione e redige le domande avrà un potere formidabile, quasi manipolatorio. Non mi sembrano difficoltà insormontabili, non più di quelle di formare collegi elettorali o di risolvere le altre tecnicalità di un’elezione, ma per ora questo sistema appartiene ancora al novero degli esperimenti politologici.
L’alternativa non può essere che quella di lasciare le scelte a un gruppo di designati, che però non incorra più nella diffidenza che sta travolgendo la vecchia casta politica. Le nuove forme di comunicazione consentono oggi di fare politica in modo radicalmente diverso dai vecchi partiti, allo stesso modo in cui la chiesa ha meno bisogno delle parrocchie per raggiungere i fedeli.
La televisione e internet possono essere strumenti formidabili di mobilitazione, per portare la gente in piazza (come fa Beppe Grillo), indurla a votare alle primarie anche se su obiettivi non ben definiti (come fa Walter Veltroni) o organizzare grandi marce su Roma come fanno la destra e i sindacati. Tutte queste forme danno ai cittadini aderenti la sensazione di essere parte di un grande movimento, ma si tratta di forme di partecipazione abbastanza effimere, che alla fine sono usate soprattutto per ratificare decisioni già prese. Il vero rischio è di avviarci verso una democrazia mediatica ancor più manipolativa delle forme che già conosciamo.
E allora? Dobbiamo rimpiangere il vecchio sistema dei partitoni con i loro comitati centrali e i loro congressi, che con tutti i loro difetti erano pur sempre una grande scuola di selezione della classe dirigente politica? Forse, ma di certo quei sistemi non torneranno più. Come ci immaginiamo allora la democrazia di domani? Quale sarà il sistema per il quale dobbiamo batterci, la cornice istituzionale delle nostre battaglie di uomini liberi?
Io credo che un’utile cartina al tornasole consiste nel chiedersi dove si svolgeranno le discussioni sulle “issues”, cioè i confronti preliminari alle decisioni nelle assemblee elettive, che nella tradizionale politica italiana si svolgevano nei partiti e che certo non sono sostituiti né dalle primarie né dai commenti ai blog di successo.
E’ possibile (anche se mi rendo conto che si tratta di una risposta parziale alla domanda che ho posto all’inizio) che la politica del domani si sviluppi soprattutto attraverso corpi intermedi aggregatori: associazioni, movimenti di cittadini che si uniscono su una battaglia specifica, gruppi d’interessi. E’ qui che i cittadini saranno chiamati a partecipare e a discutere. In occasione delle elezioni, i leader cercheranno di raccogliere quanto più possibile il consenso di queste organizzazioni, senza più pretendere di sistematizzare tutto in un partito globalizzante, che vuole offrire una sua visione del mondo. E’ la “politica dal basso”, che richiama fortemente quanto avviene negli Stati Uniti, ma che presuppone, appunto, un tessuto sociale fitto d’iniziative e di scambi.
L’Italia dispone di questo tessuto sociale? Non abbastanza, ma certamente di più che in passato, quando partiti, parrocchie e movimenti fiancheggiatori assorbivano gran parte dell’attività sociale organizzata. Di certo la gente ha una gran voglia di partecipare. La novità è che lo sbocco a questa domanda politica non può più venire dalle strutture di partito, che tendono a manipolarla, ma deve autorganizzarsi: sul territorio, sulla rete, in cento occasioni di scambio e di confronto.
Avanzo anche una proposta: delimitare più strettamente il campo della politica professionale. Io non credo che si possa abolire del tutto, perché un sindaco, un consigliere regionale, un parlamentare devono dedicare al loro incarico un tempo così impegnativo da richiedere un corrispettivo per campare. Ma perché retribuire i consiglieri circoscrizionali, quelli comunali o anche quelli provinciali? Se la gente che si avvia all’attività politica sapesse che solo per pochissimi questa può diventare una professione, probabilmente anche i rapporti tra i cittadini comuni e la “casta” sarebbero ben diversi.

3 commenti

  1. Sappiamo però (o almeno la stragrande maggioranza di noi ne è convinta) che questo tipo di sistema sarebbe il peggiore possibile, perché i cittadini deciderebbero sull’onda delle emozioni, senza approfondire adeguatamente le decisioni da prendere, che spesso sono tecnicamente molto complesse. Fare seriamente politica significa essere disponibili ad assorbire non solo una informazione mediatica superficiale ma a studiare questioni che hanno molto sfaccettature e richiedono la mediazione tra molti interessi.

    Io, per primo, non sono convinto che la democrazia diretta sulla rete sia simile alla democrazia diretta in piazza. E’ vero che in piazza la capacita’ di manipolare le masse, di dare indicazioni e’ fortissima. Il carisma conto piu’ delle argomentazioni.
    Ecco io non credo (nonstante il fenomeno Beppe Grillo) che la rete funzioni nello stesso modo. La rete, per sua natura, da accesso alla long tail, anche alla longtail delle opinioni. Che in genere sono anche le piu’ pensate. In fondo se io non la penso come beppe grillo, in una piazza non posso fare molto, ma su internet, posso fare politica, collegarmi cono altri oppositori interni al suo movimento, e farmi sentire da piu’ persone. E’ vero che le idee che ho espresso su beppe grillo non hanno fatto breccia, ma e’ anche vero che ho ricevuto migliaia di visite al blog e migliaia di persone le hanno lette. Se poi le mie idee non le hanno pensare forse la responsabilita’ e’ piu’ mia ce della rete. E forse hanno fatto loro pensare e cambiare opinione in sottili modili non facilmente misurabili.

    Se pensi a un sistema in cui si vota su tutto. Questo potrebbe essere fatto anche con la televisione (e un telefono). Ecco la rete e’ diversa.
    Potresti equiparare la rete a una televisione con migliaia di canali (tante opinioni). Ma ancora non ci siamo perche sono tante opinioni incui ognuno puo’ dire la sua.
    Allora forse potresti pensare alla rete come a una televisione con tante opinioni in cui ognuno abbia un canale, ma ancora non ci siamo. Perche senza gli hyperlink, senza i collegamenti da canale a canale la rete non ha il suo potere.

    Non e’ solo il fatto di poter dire la propria opinione, ma di potersi collegare con altre persone e di poterle cercare. Questo e’ un tipo di democrazia diretta che non e’ mai stato tentato. Che piu’ la gente lo conosce meglio funziona. Per adesso i politici hanno solo sentito beppe Grillo e si sono presi una gran paura. Ma dietro Beppe ci sono migliaia di teste pensanti, che lo criticano, lo correggono, e interagiscono tra di loro. Non solo attraverso i commenti ma attraverso i loro blog. E piu’ gente blogga piu’ la struttura sociale si infittisce e questo genere di democrazia funziona meglio.
    Un esempio (anche se usando i commenti e non i blog: Di Pietro e’ in stretto contato con la rete, e in una delle ultime votazioni ha corretto la sua posizione dopo aver sentito quello che tutti noi gli scrivevamo.

  2. Pietro, quello che tu dici è giusto: attraverso la rete la gente si scambia opinioni, anche meditate. E cresce la consapevolezza dei problem i e la capacità di cercare soluzioni. Ma alla fine questo fermento deve trovare un’espressione istituzionale ed è di questo che volevo parlare. Come traduci i commenti in rete nell’espressione di una volontà politica di maggioranza? Con la democrazia diretta? Non ci credo. Con le mobilitazioni di piazza, si chiamino vaffa day o elezioni primarie? Ci credo ancor meno. E quindi siamo daccapo, nel difficile problema di definire come può funzionare la democrazia nel 21° secolo.

  3. Intanto questo scambio di opinioni ha tre effetti:

    1) richiamare i politici alle loro responsabilitá (ancora nessuno ha fatto la legge sul conflitto di interessi)

    2) Denunciare nei discorsi dei politici le c…ate che dicono.

    Ma soprattutto 3) ha un effetto consultivo (credo si dica cosí, sai il latino…). Cioe’ in un momento in cui c’e’ un enorme bisogno di idee nuove, funge da deposito di idee nuove che vengono vagliate dalla gente, ripetute, ampliate, e infine adottate dai politici. Qualcuno direbbe rubate, ma questo e’ non importante. Certo inquesto processo gli autori delle idee originali potrebbero non essere mai acknowledged. Ma la cosa importante é che le idee, quelle veramente buone adesso hanno una via per andare da chi non ha potere diretto a chi ce l’ha.

    Hai visto che a Roma, hanno fatto sugli argini del Tevere delle bancarelle? Ecco, mia madre lo sosteneva da anni. Qualcuno lo ha consigliato e adesso ci sono. Se la mamma fosse stata su internet, e quest’idea fosse stata dibattuta su internet prima di essere adottata, la mamma avrebbe avuto la possibilita’ di dire la sua. L’idea sarebbe stata un po’ piú completa.

    Insomma per adesso la rete ha una funzione di enorme camera di brainstorming. Non abbastanza, ma tutt’altro che inutile.

    Quello che suggerisci e’ che forse potrebbero esserci piú e piú persone che usano la rete per tastare il polso prima di decidere cosa fare in parlamento. Immaginiamo, un parlamento trasparente. Tutte le discussioni non soltanto riprese da Radio radicale, ma automaticamente trascritte e linkabili (dunque discutibili). Chi vota che cosa registrato per sempre. Le proposte al consiglio dei ministri dichiarate su internet in tempo reale, o anche prima, per permettere alla gente di commentarle, migliorarle, levargli i bachi. E levargli gli inghippi che i politici magari mettono sottobanco per permettere a quell’amico e quell’altro di evitare la prigione.

    A quel punto il politico diventa piú una persona che ha il compito di rappresentare le persone non solo nel momento in cui ha preso il voto ma in ogni momento. Non é democrazia diretta, ma la gente avrebbe un controllo maggiore su quello che succede.

    A questo scenario si potrebbe aggiungere la possibilitá delle persone di “levare” la propria fiducia in certe persone. Una specie di voto continuo. Ogni persona vota, via internet. Poi il suo voto e’ attaccato a quel politico. Ma tu vedi quel politico cosa fa, come vota, cosa dice, come interpreta la situazione. Lo vedi perche hai la rete, e le analisi. E quando vuoi ri-indirizzi il tuo voto su qualcun’altro.

    Io credo ci sia un enorme classismo intellettuale dietro l’idea che il popolo non deve avere in mano le redini del potere. Un classismo che fa a pugni con lo spirito stesso della democrazia. E’ ora che questa contraddizione sia risolta. O le persone non sono educate abbastanza per decidere che le rappresenta, o sono educate abbastanza per rappresentare se stesse.

    Allora facciamo fare un esame, e solo chi lo passa puó votare. Questo, in fondo, é l’assunto alla base della forma di governo di Democrazia Rappresentativa. Solo le persone che possono essere elette hanno la capacitá di guidare il paese. Ma la gente poi non si riconosce in loro. E, piú grave, loro non si riconoscono nella gente. E cosí si ha, da una parte la Casta, e dall’altra il popolo. Popolo che alla fine ha eletto gente come Bossi, gente che lo rappresentava per davvero.

    Bisogna uscire da questa dicotomia, e l’uscita consiste in un inversione di ruoli. Non sono le persone che non sono abbastanza educate per avere responsabilita’ ma sono le persone a non avere abbastanza responsabilita’ da avere alcun interesse a educarsi.

    Da loro potere, e ti sorprenderanno!

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