È passato più di un anno da quando, come avevamo annunciato in questo blog, abbiamo iniziato la pubblicazione on line dei capitoli del libro “La e-democracy possibile” e a questo punto dobbiamo ammetterlo: il progetto si è arenato e non sappiamo se potremo riprenderlo. Abbiamo scritto alcuni capitoli sulla teoria del voto, frutto soprattutto delle conoscenze matematiche e degli studi di Pietro (Donato più che altro ha svolto la parte del curioso divulgatore) ma non abbiamo affrontato il cuore del discorso: come potrebbe cambiare il meccanismo delle scelte democratiche con l’uso delle nuove tecnologie.

Riassumiamo i termini del problema. Il sistema settecentesco di scelta di propri rappresentanti inviati ai parlamenti per quattro o cinque anni può sembrare ormai obsoleto. Oggi più che mai, l’elettronica consente meccanismi di democrazia diretta. Si potrebbe, per esempio, affidare le scelte a tutta la cittadinanza on line. Oppure, consentire in qualsiasi momento di cambiare il proprio voto e cambiare il proprio partito o il proprio rappresentante in Parlamento.

Molti elementi portano però a pensare che si tratterebbe di una scelta pericolosa. Le decisioni politiche sono spesso molto complesse e richiedono la valutazione (o quanto meno le spiegazioni) di esperti. Inoltre, scelte che magari influenzeranno fortemente il futuro di una comunità non possono essere prese su spinte umorali. Ci sono temi, come il fisco, dove questo sistema potrebbe portare a soluzioni miopi. Non a caso i padri costituenti in Italia esclusero le tasse dalle materie referendarie. Ma anche questa è materia controversa: nei referendum svizzeri si può votare sulle tasse.

Meglio dunque che certe scelte vengano prese da chi ha avuto la possibilità di approfondirle adeguatamente e magari è arrivato a conclusioni apparentemente impopolari, ma che sono orientate al benessere futuro della cittadinanza. Per esempio, tutte le tematiche ambientaliste che tendono a imporci restrizioni costose oggi per la salvaguardia dei nostri figli (o di noi stessi) domani farebbero fatica a essere accettate.

Ma anche se si volesse far votare la popolazione, si dovrebbe decidere qual è l’insieme ottimale degli elettori. Per esempio, per determinare il limite di velocità in autostrada si potrebbe, come spiegato nel nostro libro, affidarsi alla mediana tra le risposte dei votanti, ma è evidente che la risposta potrebbe essere diversa se votano solo gli automobilisti utenti delle autostrade o tutti i cittadini. Anche sulle politiche ambientaliste citate più sopra, si potrebbe sostenere che hanno diritto a votare solo le persone sotto una certa età, che di quelle politiche percepiranno le conseguenze.

Dobbiamo invece rimanere fermi agli stessi sistemi di duecento anni fa? Anche questo non è possibile perché  i meccanismi di decisione politica sono già cambiati a seguito dell’uso delle nuove tecnologie. Come abbiamo scritto nella premessa del nostro progetto di libro.

La possibilità di intervenire attraverso messaggi elettronici, social network e votazioni in rete ha alimentato un intenso dibattito sull’e-Democracy, creando anche grandi aspettative su una nuova democrazia del 21° secolo.

In realtà i parlamentari di oggi  sono molto meno liberi di quelli di una volta perché le loro scelte sono condizionate dai messaggi che ricevono in continuazione dai loro elettori.  Trent’anni fa, il deputato doveva solo rendere conto del suo operato al proprio collegio quando tornava a farvi visita. Oggi è obbligato a raccontare quello che fa e quello che pensa sui social network e riceve immediatamente dei feedback, dai “mi piace” ai commenti, dai tweet agli sms. Aggiungiamo che questo feedback è il più delle volte scritto con la pancia, puramente umorale, come avviene in buona parte dei commenti che compaiono sui blog, tanto da indurre un giornalista come Beppe Severgnini a interrogarsi sulla utilità di pubblicare i suddetti commenti e di dedicare tempo a controllarli per evitare querele e magari a rispondere. In molti casi, poi, si determinano meccanismi aggressivi che zittiscono immediatamente chi dissente dall’opinione prevalente.

I politici molto più che in passato sono esposti a due ulteriori condizionamenti: i talk show, che obbligano a condensare ogni risposta in pochi secondi, privilegiando le battute demagogiche rispetto agli approfondimenti, e i sondaggi che in un certo senso anticipano quanto scrivevamo più sopra sui difetti della democrazia diretta, perché tendono a orientare le scelte sulla base del bisogno immediato di non far calare la propria popolarità. Per non parlare poi dei messaggi virali che circolano sui social network: fanno opinione anche quando si rivelano infondati.

Insomma, questi sono i corni del dilemma. La tecnologia consente una partecipazione popolare molto più ampia e diretta, ma le esperienze recenti ci portano a dire che questa partecipazione, che potrebbe essere molto positiva, in realtà è facilmente manipolabile e spesso non rispecchia un’adeguata riflessione.

Sono anche stati sviluppati diversi software per facilitare un raggiungimento ponderato di decisioni comuni. Ma le vere domande sulla e-Democracy, gli interrogativi che ci hanno fermato nella elaborazione del libro, riguardano sia la “e”, cioè la metodologia della partecipazione, che la “democracy” cioè l’opportunità che l’intera popolazione partecipi più direttamente e più assiduamente a tutte le scelte politiche.

In questi dodici mesi, il dubbio è cresciuto in noi e ci ha indotto a una pausa di riflessione. Le scelte di fondo non sono tecniche ma di filosofia politica:

  • È opportuno che tutti decidano tutto sotto forma di una partecipazione diretta e non mediata da propri rappresentanti? Abbiamo accennato ai rischi, ma qualcuno potrebbe anche rispondere il contrario: attraverso l’uso della democrazia diretta i cittadini imparerebbero dai loro sbagli a decidere meglio. A che prezzo però non lo sappiamo.
  • Se devono esserci dei rappresentanti che decidono per tutti, quale deve essere la natura della delega? Si potrebbero anche ipotizzare meccanismi nei quali i rappresentanti, come le giurie popolari nei processi penali, siano scelti e pagati per un periodo determinato per affrontare questioni specifiche, magari sulla base di un campionamento che rifletta la struttura della popolazione. Esperimenti in questo senso sono già stati fatti. In questo modo si ridurrebbe al minimo la cosiddetta “classe politica”.
  • Infine la domanda delle domande. Il suffragio universale è davvero la soluzione o alla luce della maggiore partecipazione popolare che abbiamo sperimentato in questi anni attraverso la tv, i sondaggi e i social, necessita di correttivi? Forse, come una volta si escludevano gli analfabeti, il voto dovrebbe essere limitato a chi dimostra una certa conoscenza delle questioni in discussione. Certo, ci sarebbe il rischio di tornare a una democrazia di casta, come quella ateniese, che escludeva dal voto gli schiavi. Già oggi però una percentuale, variabile nei diversi Paesi, ma spesso vicina o anche superiore alla metà dell’elettorato, non si reca alle urne. Sono di solito i più poveri o i più emarginati a essere esclusi perché non hanno fiducia nel sistema politico. Insomma, anche il suffragio universale come lo conosciamo oggi non è un sistema che garantisce davvero una rappresentanza universale. .

Il dibattito è aperto. Per ora noi ci fermiamo e aspettiamo di vedere come si evolverà.

Donato Speroni e Pietro Speroni di Fenizio

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