Dice il ministro dell’Economia Giulio Tremonti: “Una volta la politica veniva prima dei numeri, oggi sono i numeri che fanno la politica e la politica è l’arte di adeguarsi ai numeri”. Se è così, si pongono almeno tre interrogativi: perché i numeri sono diventati così importanti, chi decide quali sono i numeri che contano, quanto sono attendibili i processi di elaborazione di questi dati.
L’importanza della statistica per le scelte politiche non è cosa nuova. Le novità, semmai, derivano dal fatto che una buona parte dell’opinione pubblica si è abituata a valutare i risultati dell’azione politica attraverso risultati numerici: un processo accentuato dal fatto che anche l’Unione europea prende a riferimento dei numeri (i parametri di Maastricht) per valutare i comportamenti più o meno virtuosi degli stati membri. Si tratta insomma di una crescita d’importanza dovuta a una molteplicità di fattori, ma non siamo certo di fronte a una dittatura degli istituti di statistica che impongono le loro priorità ai politici. A meno che Tremonti non volesse riferirsi ad altri numeri, quelli dei sondaggi di popolarità, che sembrano sempre più importanti per le scelte politiche; malauguratamente, perché il politico che guarda solo alla popolarità immediata difficilmente compie scelte valide nel medio e lungo termine.
Ma lasciamo perdere i sondaggi e torniamo alle statistiche. Ci sono tanti dati, forse troppi. Giornalisti e opinione pubblica faticano a orientarsi, mentre i politici scelgono quelli più confacenti alle loro tesi. In questo campo però bisogna evitare i malintesi: è giusto cercare il dato più significativo, ma è sbagliato credere che un complesso fenomeno sociale si possa descrivere con un unico dato. Due episodi recenti ci aiutano a spiegare il concetto. Il 15 ottobre nel suo Bollettino la Banca d’Italia ha presentato un dato della disoccupazione che somma a chi cerca lavoro anche i cassintegrati e gli scoraggiati. In questo modo la percentuale di disoccupati sale dall’8,5 per cento all’11 per cento. “Non commento dati esoterici”, ha replicato stizzito il ministro del lavoro Maurizio Sacconi. Ed anche la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia ha detto che è bene attenersi ai dati Eurostat.
In realtà non c’è alcun esoterismo nelle elaborazioni della Banca d’Italia, né i dati statistici sono un catechismo. Da tempo si sapeva che il tasso di disoccupazione è in parte fuorviante perché non tiene conto di chi ha rinunciato a cercare lavoro. Ed è perfettamente legittimo che la Banca d’Italia, senza negare la validità del dato Istat, aggiunga una ulteriore elaborazione per tener conto delle persone in cassa integrazione. Si tratta di contributi alla descrizione della realtà sociale, che devono essere accettati per il loro valore, anziché reagire con fastidio.
Un discorso analogo si può fare per la povertà in Italia. Anche qui c’è un dato ufficiale calcolato dall’Istat e c’è una ulteriore elaborazione della Caritas che avverte: per l’Istat la povertà relativa non è aumentata perché in una situazione di calo generalizzato dei redditi si è abbassata anche l’asticella di chi è considerato povero. Se invece si guardano i dati dell’anno precedente e si aggiunge il tasso d’inflazione, si ottiene una diversa soglia di povertà che ingloba altre 560mila persone. In questo caso i giornali hanno scritto che la Caritas contesta l’Istat e l’Istat ha dovuto replicare che le due istituzioni da tempo lavorano insieme.
In realtà, nel caso della povertà “relativa” (che è pari alla metà del reddito medio) così come nel caso del tasso di disoccupazione, ci troviamo di fronte a un dato di valore limitato, come spiegano da tempo gli statistici che misurano queste cose. Sia all’Istat che alla Caritas sanno bene che la povertà “relativa” è un’astrattezza statistica. E’ molto più significativo misurare la “povertà assoluta”, cioè la quantità di persone che non possono soddisfare i bisogni primari per una vita dignitosa: un calcolo molto più complesso, che l’Istat ha ricominciato a fare da pochi anni dopo una rigorosa revisione metodologica.
Abbiamo citato questi esempi per sottolineare come, soprattutto in materia sociale, ben difficilmente esista un dato unico che soddisfa tutti. La statistica ufficiale fornisce i dati di base, altri fanno ulteriori doverose elaborazioni. Tutto bene e tutto giusto a condizione che i media aiutino a capire e che i politici non strumentalizzino i dati.
Serve più cultura numerica. Il 20 ottobre si è celebrata anche in Italia la “giornata della statistica” voluta dall’Onu. Il presidente dell’Istat Enrico Giovannini ha sottolineato che sta per nascere la Scuola superiore di statistica e analisi sociali ed economiche, ed è una buona cosa. Nel corso della presentazione del suo libro “Statistiche come e perché” (Donzelli Editore) all’Istituto per l’Enciclopedia italiana, l’ex presidente dell’Istat Alberto Zuliani ha ricordato che per i cittadini di domani la conoscenza di base della statistica è certamente più importante dell’analisi matematica che si impara al liceo e si dimentica subito dopo. Il libro di Zuliani è una buona base per usare meglio i dati che ci piovono addosso in continuazione. Ma le buone statistiche, come dice Giovannini, non crescono sugli alberi. Richiedono fondi, conoscenza, impegno di diffusione. Una grande scommessa per la cultura italiana.