La “quantità di lavoro” impiegata da un sistema economico è un insieme determinato? La domanda è tutt’altro che teorica. L’Istat per esempio ci dice che l’Italia per fare il suo Prodotto interno lordo, compresa la ricchezza creata dall’economia sommersa, ha bisogno di circa 25 milioni di “unità di lavoro”, cioè di persone che lavorano a tempo pieno.
Che cosa cambia se questa “quantità di lavoro” è fornita secondo mix differenti? Per esempio con più anziani e meno giovani, o con un maggior apporto delle donne alle attività produttive? E’ vero che, come pensano molti politici, il lavoro che si dà agli uni viene tolto agli altri? Che se per esempio si ritarda l’età pensionabile si rinvia l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro?
Per rispondere è necessario distinguere tra due tipi di produzione: la produzione manifatturiera e quella dei servizi. In linea di massima, i posti di lavoro nel manifatturiero all’interno del nostro sistema economico sono una quantità finita e probabilmente decrescente. Con una popolazione stabile o in calo, con gli aumenti di produttività garantiti dall’automazione, con la probabile minor domanda dovuta a cambiamenti nei modelli di consumo, ci vorrà sempre meno gente per produrre i beni che ci servono. E’ vero che, se e quando si uscirà da questa crisi, ci saranno nel mondo almeno altri tre miliardi di persone che vorranno più auto, più frigoriferi, più cibi industriali. Ma non è probabile che questa domanda aggiuntiva possa essere soddisfatta dall’Italia, se non per quote marginali, magari per prodotti di lusso o comunque sofisticati. Dovremo continuare ad esportare, perché la nostra è un’economia di trasformazione: non abbiamo né materie prime né petrolio. Ma è difficile credere che la quantità di lavoro legata all’export possa crescere.
E’ dunque probabile che nelle fabbriche italiane un posto di lavoro tenuto da un anziano sia un posto di lavoro che non va a un giovane. Ben diverso è il discorso per i servizi, che sono in pratica la produzione di un valore aggiunto più impalpabile. E’ servizio una consulenza, un taglio di capelli, ma anche l’offerta di una poesia su internet chiedendo di versare un contributo (ammesso che qualcuno risponda). E’ servizio l’aiuto che si dà a un’altra famiglia, sotto forma di babysitting o di cura degli anziani.
Possiamo immaginare che nel mondo del futuro cercheremo di consumare meno “cose” (anche perché non potremo più permetterci questi livelli di uso delle risorse ambientali) e ci scambieremo più servizi. I servizi, però, per loro natura sono flessibili, mutevoli, quasi mai richiedono consistenti capitali di avviamento. Chiunque sia in grado di individuare un bisogno ed abbia un know how da offrire è in grado di mettersi sul mercato.
Nell’economia dei servizi, la quantità di lavoro non è predeterminata. Indagini internazionali dimostrano, per esempio, che una maggiore occupazione femminile (anche a scapito, temporaneamente dell’occupazione maschile), alla lunga fa crescere maggiormente il Pil. Forse perché le donne per lavorare creano maggiore domanda di servizi domestici, forse perché gli uomini cercheranno di creare ricchezza in altri modi; quello che è certo è che le differenze di mix hanno influenza sul Pil; e a sua volta un aumento del Pil aumenta la domanda di lavoro da parte dei produttori.
In conclusione, non bisogna trattare il lavoro come una quantità finita, da proteggere gelosamente. Bisogna dare agli anziani la possibilità di lavorare più a lungo, magari facendo cose diverse dal passato, senza timore che questo sottragga posti a giovani. Bisogna dare ai giovani gli stimoli necessari per inventare lavori nuovi, dando loro formazione, credito e aiuti, come si fece negli anni ’80 con la legge sull’imprenditorialità giovanile nel Mezzogiorno. Bisogna favorire in tutti i modi la crescita della presenza femminile nel mondo del lavoro.
Una società più mobile, nella quale la gente non ha paura di perdere il lavoro ed eventualmente di inventarsene un altro, ha un presupposto fondamentale: un sistema di ammortizzatori sociali generalizzato e dignitoso. La società di oggi non limita più il rischio all’imprenditore. Ormai tutti rischiano, anche i precari, i dipendenti delle grandi aziende in crisi, i professionisti che lavorano in proprio. La creazione di una rete di sicurezza, che trasformi questo rischio in uno stimolo benefico e prevenga tensioni sociali ingestibili, dovrebbe essere la prima preoccupazione di qualsiasi governo.