La popolazione ha ripreso a crescere: quest’anno abbiamo superato “quota sessanta”. Siamo già oggi uno dei Paesi più affollati d’Europa, con effetti negativi sull’ambiente e sulla qualità della vita. Sarebbe opportuno mantenere la popolazione a questo livello; ci sarebbe comunque spazio per una immigrazione abbastanza consistente, alla quale offrire migliori politiche di accoglienza e integrazione.
Fermare l’immigrazione? La crisi economica ha riaperto il dibattito. Il ministro Maroni ha chiesto uno stop alle quote per due anni, il suo collega Sacconi parla di “un numero limitato d’ingressi soltanto per coloro che presentano un contratto di collaborazione familiare”, la Cgil di Treviso è favorevole allo sto temporaneo ai flussi, il Sole 24 Ore ammonisce che “settori interi d’impresa oggi reggono il mercato grazie alla manodopera straniera”. Posizioni articolate, ma tutte in un’ottica di breve periodo.
Quando l’economia tira, lo sappiamo, l’Italia ha bisogno di braccia perché ci sono molti lavori che gli italiani si rifiutano di fare. In realtà l’apporto dell’immigrazione serve anche per mantenere un ragionevole equilibrio demografico, dati i bassi tassi di natalità delle famiglie italiane e la tendenza all’invecchiamento della popolazione.
Il flusso degli arrivi può (forse) essere gestito in ragione della situazione congiunturale, ma sarebbe opportuno porsi due domande scomode, che devono portare a risposte di più lungo periodo: quanta immigrazione vogliamo nel Paese? E con quale profilo dei migranti?
Partiamo da un quadro demografico complessivo. Dopo due decenni di stabilità (dal 1981 al 2001 la popolazione italiana è rimasta al di sotto dei 57 milioni) oggi il numero dei residenti ha ripreso a crescere. Gli ultimi dati diffusi dell’Istat ci dicono che ad aprile eravamo 59,8 milioni, con una crescita di quasi 144mila unità in quattro mesi. Oggi, insomma, dovremmo avere superato la soglia dei sessanta milioni.
E’ un bene, è un male questa crescita? Bisogna tener presente che, con una densità di quasi 200 abitanti per chilometro quadrato (dati Eurostat 2006), l’Italia è tra i grandi paesi europei più popolati, superato solo dalla Germania (231) e dal Regno Unito (250). Al confronto, la Francia ha solo 100 abitanti per chilometro quadrato e la Spagna 87! Si deve anche tener presente che le condizioni orografiche del nostro Paese rendono inabitabili vaste aree, aggravando la densità delle altre: secondo dati Istat del 2007, in Lombardia la densità è di 400 abitanti, nel Lazio di 319, in Campania addirittura di 426.
Credo che di fronte a queste cifre dovremmo concludere che è bene che la popolazione italiana non cresca ulteriormente, aggravando la pressione antropica su un’ambiente già messo a dura prova dall’inquinamento e dalla cementificazione. Attenzione però: questo non significa fermare l’immigrazione, perché il calo demografico naturale lascia comunque ampio spazio per nuovi arrivi. Si tratta semmai di dimensionarla con una visione di lungo periodo.
Quanti sono gli stranieri residenti e di quanto cresce la loro presenza? In assoluto, il numero è inferiore alla media europea. Al 31 dicembre 2005, ultimo anno per il quale si dispone di dati per tutti i paesi europei, l’Italia presenta un’incidenza della popolazione straniera di 45,5 residenti ogni 1000 abitanti, dispetto alla media europea di 56,6. Al confronto, in Spagna ce n’erano 91,5, in Germania 88,4, nel Regno Unito 56,7, in Francia 55,7. La presenza straniera in Italia sta però crescendo a ritmi elevati. Nel 2007 la popolazione straniera è cresciuta addirittura di 494mila unità, ma c’è stato il forte ed eccezionale apporto dell’immigrazione rumena (283mila unità) dopo l’apertura delle barriere della Ue. Nel 2005, il saldo migratorio era stato di 302mila unità. In futuro, i flussi dovrebbero essere tarati su un target di mantenimento dell’attuale popolazione nel medio – lungo termine. Con un calcolo molto approssimativo, si può supporre che si tratti di circa 100mila nuovi ingressi all’anno. Si tenga anche conto che l’aumento della presenza straniera in Italia tende ad accrescere la natalità: quindi l’immigrazione dovrà sempre meno supplire al calo delle nascite per mantenere un numero costante di residenti.
Centomila ingressi: può darsi che dalle famiglie e dal mondo produttivo si prema per numeri più consistenti (quest’anno, per esempio, si parla di quote per 170mila nuovi ingressi). Ciò è economicamente comprensibile: l’offerta di manodopera straniera a basso costo è molto elevata (c’è mezza Africa che è pronta a tutto pur di venire in Europa), ma questo è uno dei casi in cui l’economia deve essere governata dalla politica: si limitino gli ingressi e si trovino altre soluzioni, basate su una migliore organizzazione del lavoro e delle tecnologie, per far fronte alla domanda. Né si può pensare che l’immigrazione sia il toccasana per aiutare i paesi in via di sviluppo, che richiedono invece forme di supporto in loco per aiutarli a crescere.
C’è comunque spazio per un’immigrazione consistente (centomila ingressi non sono pochi), regolamentata, che dobbiamo essere in grado di ricevere con politiche adeguate di accoglienza e d’integrazione. E a questo punto si pone la seconda, importante domanda: quale immigrazione?
Sgombriamo il campo dal fatto ineluttabile che una quota deve essere riservata a chi richiede asilo perché proviene da situazioni insostenibili in patria. E’ sempre difficile stabilire a chi deve essere accordato questo diritto, di fronte a milioni di disperati che vorrebbero avvalersene, ma si tratta di un tributo sociale che è necessario continuare a pagare. Nel 2007 avevano presentato istanza per ottenere lo status di rifugiato 14mila persona. Quest’anno sono già 40mila, ma non è detto che tutte le domande debbano essere accolte.
Si tratta comunque di una minoranza nel quadro della politica degli ingressi. E gli altri? A chi concedere i permessi? In molti Paesi europei sono state introdotte politiche di preparazione all’immigrazione nei paesi d’origine e di selezione dei visti sulla base delle qualificazioni, con un occhio anche al fatto che gli immigrati potrebbero un giorno ritornare in patria e apportarvi la loro esperienza. Immigrazione dunque non come spoliazione, ma come cooperazione. La politica europea e quella dell’Ocse sono particolarmente attente a questi aspetti, che ho cercato di descrivere anche in un mio articolo su East.
In Italia, invece, i criteri prevalenti sono la casualità (l’immigrazione clandestina che si regolarizza) o la domanda di famiglie e imprese, che portano a privilegiare l’esigenza di coprire i lavori più umili. E’ proprio questa però la domanda che in un momento di crisi tende a ridursi. Forse sarebbe il momento giusto per cambiare politica: non per chiudere le porte all’immigrazione, ma per introdurre altri criteri d’ingresso.

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