Riprendo a scrivere dopo un mese di vacanza, trascorso prima in barca (da Preveza, che si affaccia sullo Jonio greco, a Leros, nell’Egeo), poi in un lungo viaggio in auto (sempre da Preveza attraverso i Balcani fino a Roma). Gli stacchi sono importanti, aiutano a  riflettere. Moltiplicano i temi  sui quali mi piacerebbe “saperne di più”, come ho scritto nel mio sito.
Sono all’opera forze ineluttabili, che non solo non cerchiamo di contrastare, ma neppure di prevedere nei loro risultati per adattarci nel miglior modo possibile. La prima di queste forze è la pressione demografica, che come giustamente dice Guido Ceronetti sul Sole 24 Ore di oggi (e come lui anche Giovanni Sartori e altri), è ignorata in molte analisi per fanatismo religioso o per il desiderio di non sollevare troppe polemiche nelle sedi internazionali.
Siamo oggi circa 6,7 miliardi. Di questi, circa un miliardo ha stili di vita paragonabili ai nostri, mentre altri due miliardi circa contano di arrivarci nei prossimi dieci anni. Ai tre e passa miliardi che compongono la massa dei più poveri, non sappiamo far altro che offrire aiuti (peraltro indispensabili per non morire di fame) e un modello di sviluppo che sarà già insostenibile quando ci saranno tre miliardi di americani, europei e asiatici arrivati al benessere che quindi non corrisponde alle possibilità del Pianeta.
Per quanto virtuosi possano essere i comportamenti di risparmio energetico, sviluppo tecnologico verso nuove fonti, utilizzo delle biotecnologie per massimizzare le produzioni alimentari, dobbiamo fare lo sforzo di immaginare un mondo nel quale risorse devono essere divise tra dieci miliardi di persone, come avverrà nel 2050. Delle due l’una: o si riuscirà davvero a immaginare un nuovo modo di vivere decentemente sulla Terra, un modo che inevitabilmente dovrà prevedere un drastico contenimento dei consumi dei più ricchi, oppure si scateneranno gli egoismi peggiori, legittimati dal fatto che non ci saranno risorse per tutti. In quel caso gli orrori del ventesimo secolo saranno solo  un pallido ricordo, rispetto a quello che potrebbe accadere.
A un certo punto, in qualche modo, il mondo troverà un suo equilibrio. Forse la gente imparerà a fare meno figli; forse religioni e ideologie correggeranno le loro visioni. Forse la popolazione si sarà già autoridotta nel peggiore dei modi attraverso guerre, carestie ed epidemie. Forse la scienza ci offrirà soluzioni brillanti che allontaneranno le paure di oggi. Forse esploderanno altri problemi, altri privilegi, magari i contrasti tra i ricchi che potranno diventare praticamente eterni reimmettendo il back up del loro cervello in un corpo clonato per tempo e i poveracci ai quali questa possibilità non sarà offerta… Forse.
Nessuno riesce a immaginare che cosa ci riserva la seconda metà del secolo. Saranno problemi dei nostri nipoti. Ma quello che succederà nei prossimi quarant’anni è invece, in larga misura, già scritto nelle cose: nelle dinamiche demografiche, nelle variazioni climatiche irrefrenabili, nell’impiego delle risorse, nelle dialettiche tra le nazioni e tra i popoli. Di queste cose la politica dovrebbe parlare molto di più, anche perché soltanto rendendosi conto di quello che ci aspetta domani possiamo prendere decisioni consapevoli oggi.
In questo quadro, per esempio, anche il problema del futuro dell’Europa, a repentaglio dopo il referendum irlandese, assume un altro carattere. Credo che con le istitituzioni europee che ci ritroviamo si vada ormai poco lontano. Dobbiamo tenercele, perché smantellarle sarebbe ancor più costoso economicamente e socialmente (si pensi a che cosa significherebbe rinunciare all’euro), ma non sarà da Bruxelles che verrà l’input per fare dell’Europa una protagonista positiva nel difficile mondo dei prossimi quarant’anni. Abbiamo bisogno di ricostruire partendo da popoli con valori comuni, che si riconoscono nelle loro istituzioni, ma che sono anche consapevoli della necessità di affrontare i problemi globali superando la ormai inadeguata dimensione nazionale, a costo di rinunciare a qualcosa dei poteri statuali. Bisogna parlare alla gente, farsi capire. Esattamente l’opposto di quello che sta avvenendo oggi.
Un solo esempio. Nei giorni scorsi ho partecipato al Venice Forum organizzato dall’Unicredit e dalla rivista East sui problemi dell’immigrazione. Mi hanno colpito i dati sulla percezione in Europa:  per le elite, i migranti sono una risorsa, per la massa sono una minaccia. E si capisce: chi guarda all’economia sottolinea l’importanza di un afflusso di manodopera per tener bassa l’inflazione. Chi guarda al proprio bilancio descrive lo stesso fenomeno come una concorrenza sgradita che comprime il proprio salario. Sono vere entrambe le realtà. Ma se la politica non è più capace di farsi capire dagli elettori, questi risponderanno con una serie di no sempre più fragorosi, sempre più distruttivi.

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