“Non ci credono neanche le nostre mogli…”. Mi capita spesso di imbattermi nella frustrazione di economisti e statistici, convinti che gli indici dei prezzi sono sostanzialmente corretti, ma che devono combattere con l’incredulità generale e con la convinzione che “i prezzi sono raddoppiati con l’euro, mentre gli stipendi sono rimasti uguali”.
C’è in Italia una generale percezione che il Paese si stia impoverendo e che “la gente non ce la fa ad arrivare a fine mese”. Fosse anche una sensazione esagerata (ne parleremo), resta il fatto che questo è un sentimento che si amplifica attraverso i mezzi di comunicazione, modifica i comportamenti economici, finisce coll’incidere pesantemente sulla politica.
A questo sentimento contribuiscono anche errori di comunicazione come quelli commessi dall’Istat nel diffondere senza adeguate spiegazioni ex ante l’indice sugli acquisti più frequenti (si veda a questo proposito il mio precedente post e il bell’articolo di Dario Di Vico), strumentalizzazioni da parte di associazioni di consumatori, dati diffusi da istituti di ricerca poco attendibili e persino l’agenzia stampa dei vescovi che ha presentato il nuovo dato come la “vera inflazione”.Come stanno davvero le cose?
Sugli indici dei prezzi c’è ormai una copiosissima letteratura che spiega come questi indici rispecchino i consumi della famiglia media e siano sostanzialmente veritieri anche se difformi dalla percezione della gente. Il problema è che “la gente” è convinta che in realtà ci sia una parte crescente delle famiglie italiane che non ce la fa più a mantenere il tenore di vita del passato. La media, insomma, sarebbe data da famiglie che se la passano bene (perché non sono condizionate da redditi da lavoro dipendente, o magari perché non pagano le tasse come dovrebbero) e una grande massa che invece se la passa sempre peggio.
Che cosa ci dicono i dati? Esiste davvero questo impoverimento? La fonte più significativa, per rispondere, è l’indagine biennale della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie. E’ stata di recente diffusa quella relativa al 2006, basata su una metodologia molto solida (da confrontarsi con le scarse informazioni fornite di certi istituti privati), realizzata intervistando 7768 famiglie di cui circa il 50% in panel, cioè con interviste ripetute nel tempo: alcune delle famiglie rispondenti collaborano addirittura dal 1987 e questo contribuisce a garantire la confrontabilità dei dati.
Che cosa ci dice Bankitalia? Che il reddito familiare al netto delle imposte è stato in media nel 2006 di 31.792 euro, pari a 2.649 euro al mese. Il reddito pro capite pari a 12.442 euro, è cresciuto del 3,5% in termini reali dalla precedente rilevazione (2004), ma il reddito equivalente, cioè quello necessario a un single per avere lo stesso tenore di vita della famiglia media, non godendo delle economie familiari, è pari a 18.324 euro: circa 1500 euro al mese. Ci sono ovviamente differenze tra lavoratori dipendenti e indipendenti, tra nord e sud, ma fermiamoci per ora al dato generale.
I dati medi dividono la popolazione italiana in modo ineguale: grazie, presumo, al peso dei più ricchi, ci sono più persone che vivono al di sotto della media di reddito di quelle che vivono al di sopra, tanto che la mediana (cioè la linea che divide a metà la popolazione italiana) è pari a 15.800 euro: una disponibilità equivalente a circa 1300 euro netti al mese per persona, nell’ipotesi che viva da sola. Non c’è da scialare, ma la situazione generale non è molto cambiata in questi anni. E non è nemmeno cambiato il numero delle persone che vive in situazione di povertà relativa. Ci dice Bankitalia che “la quota di persone che vive in famiglie con un consumo inferiore alla metà del consumo mediano risulta pari al 6,9%, in diminuzione rispetto al 2000”. Insomma, i poveri per la statistica non stanno aumentando.
Nessuno si è azzardato a mettere in discussione questi dati. Semmai, molti commenti si sono soffermati sul fatto che i dati indicavano una “non crescita” (meno dell’1% in sei anni, in termini reali) del reddito delle famiglie con capofamiglia dipendente. La presentazione del rapporto ha sottolineato il ristagno del reddito dei lavoratori dipendenti, ma non ha messo adeguatamente l’accento sul fatto che tra i cosiddetti indipendenti, insieme ad artigiani e imprenditori che avevano accresciuto il proprio reddito dell’11,2% c’erano liberi professionisti e lavoratori atipici che avevano subito un andamento negativo. I giornali (a parte un rimbrotto del Sole 24 Ore) sono andati dietro a quest’impostazione, che rafforzava le richieste sindacali per il lavoro dipendente organizzato, mettendo invece la sordina sul sempre più grave dualismo del mercato italiano che penalizza i precari e le partite Iva “deboli”.
C’è insomma un po’ di psicosi collettiva, alimentata anche dalle tensioni contrattuali: la situazione non è rosea, ma in termini di consumi familiari non è cambiata al punto da giustificare quella che il Sole ha chiamato “la marea pauperista”.
Ma allora perché la gente è convinta del contrario? A mio parere (ma su questo punto sarebbe il caso di aprire una bella discussione) il senso di povertà dilagante ha numerose cause, che vanno ben oltre l’inflazione percepita che supera quella reale. Provo ad elencarne alcune.
1) Il declino economico ha provocato un impoverimento relativo del sistema Italia, il cui reddito pro capite era superiore alla media dell’Europa dei 15 dieci anni fa e adesso è nettamente inferiore. Rispetto al resto d’Europa la nostra economia sta andando indietro: gli altri stanno diventando sempre più ricchi di noi.
2) Molte categorie sono duramente provate dalle sfide della globalizzazione, che mette a repentaglio protezioni e certezze consolidate. Anche se l’Italia ha imprese competitive e virtuose, si è capito che i posti di lavoro, soprattutto nelle piccole imprese ma non solo (si pensi all’Alitalia), non sono più così sicuri. Per non parlare del commercio: lo spostamento delle abitudini d’acquisto dai piccoli esercizi ai grandi centri di distribuzione contribuisce a tener bassa l’inflazione, ma è un processo drammatico per molti titolari di negozi e per le loro famiglie.
3) C’è un profondo senso d’insicurezza tra i giovani ma anche tra gli anziani che non sono certi che il loro lavoro durerà fino alla pensione. Le indennità di disoccupazione sono quasi inesistenti, le pensioni future inadeguate, non c’è alcuna certezza sulla possibilità di costruirsi una “carriera” in quest’economia mondializzata e poco controllabile. Se non si rimuovono almeno in parte le cause di queste incertezze, per esempio con un massiccio investimento nella riforma degli ammortizzatori sociali, mi sembra illusorio pensare di aumentare i consumi con un’iniezione di liquidità.
4) Fa parte dell’impoverimento la sensazione di progressivo degrado di tutti i servizi pubblici, diffusa in quasi tutta Italia. Se il nostro reddito deve essere speso in parte per supplire a quello che lo Stato non ci dà a fronte delle tasse che paghiamo, alla fine avremo meno denaro da spendere per quelli che erano i nostri tradizionali consumi voluttuari, per uscire a cena o fare una vacanza.
5) L’invecchiamento gioca la sua parte. Le spese per mantenerci in salute e per badare agli anziani hanno una parte crescente nel bilancio familiare e costringono a tagliare altre spese.
6) E’ anche importante la frammentazione delle famiglie, testimoniata dall’indagine di Bankitalia: il numero dei nuclei familiari è cresciuto del 2,2%, a fronte di una crescita della popolazione dell’1,5%. Abbiamo visto che il reddito equivalente per un single è più alto del reddito medio. Chi non lo raggiunge scende dalla media a una situazione più vicina alla povertà.
In conclusione, io credo che la sensazione d’impoverimento sia fortemente legata alla condizione generale del sistema Italia. L’economia globalizzata è una sfida inevitabile, ma richiede una forte capacità di governo dei processi sociali, altrimenti il disagio diventa fortissimo. E’ quanto sta accadendo in Italia: non cambierà senza riforme incisive e coraggiose che ridiano fiducia alla gente.

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