Nessuna persona di buon senso oggi crede in una rivoluzione che abbatta il sistema capitalistico, ma molti sono convinti che il capitalismo non sia in grado di risolvere i problemi economici, energetici e ambientali del 21° secolo. In realtà un collasso del sistema peggiorerebbe le condizioni di vita di miliardi di persone. D’altra parte, non possiamo accettare in modo acritico le professioni di fede di chi ci dice che tutto è sotto controllo. Insomma, tra l’apocalisse e l’ottimismo ingiustificato c’è una strada stretta fatta di analisi critica e di governance internazionale.
Nowadays it’s difficult to find somebody who believes in a revolution that will put an end to the capitalistic system. However, many people think that the actual global system will collapse, because it’s not able to cope with the problems of the 21st century. This apocalyptic scenario is a nightmare and not a dream, because it would mean terrible conditions of life, much worse than today, for billions of people. But the economic, energy and environmental problems are so serious that we cannot take for granted the views of people who tell us that everything is under control. Between apocalypse and unjustified optimism, there is just a narrow road of governance and critical analysis.
“Prof, ma il capitalismo non finirà di botto, com’è successo al comunismo? Non riesco immaginare come possa risolvere i problemi di questo secolo…”. Mi ha interrogato così un mio studente dell’ Ifg di Urbino , al termine di una lezione sulle sfide energetiche e ambientali.
Gli ho risposto che il comunismo si confrontava con un altro modello che si era dimostrato più efficiente nell’allocazione delle risorse: il capitalismo, appunto. Mentre oggi non si vede un’alternativa se non una graduale correzione dell’attuale economia di mercato.
Esistono ancora i rivoluzionari, intesi come quelli che sognano la rivolta delle masse che rovescia le istituzioni per instaurare un ordine nuovo? Direi di no, tranne poche frange di emarginati. Chi ha fatto il ’68 era davvero convinto che la rivoluzione, cioè un drastico cambiamento verso una società più giusta, fosse davvero a portata di mano. Questa illusione è stata spazzata via non solo dalla delusione dell’esperienza comunista, ma dalla scoperta che gran parte della popolazione del Sud del mondo vuole soltanto partecipare alla divisione di quei frutti di cui il Nord già gode. I popoli di India, Cina, Sudafrica, Brasile, Messico, Russia tutto vogliono fuorché la rivoluzione. Certo, ci sono ancora sulla Terra miliardi di disperati, ma neanche l’ideologo più fuori dalla realtà può pensare che la rivolta possa avere come punti di forza il Bangladesh o il Mali. A meno che non si intenda per rivoluzione quella sognata da Al Qaida, che per gran parte del mondo è invece un incubo da combattere.
No, i rivoluzionari non esistono più come forza protagonista della scena mondiale. Esistono però, e sono sempre più numerosi, gli apocalittici: quelli cioè che sono convinti che “il sistema” non riuscirà a far fronte alle sue contraddizioni e imploderà. E’ una nuova forma di rivoluzione “inevitabile”, come voleva essere il marxismo scientifico, che immagina che il nuovo mondo si costruirà “bottom up” con piccole comunità che si ricostituiranno le condizioni di vita secondo un nuovo modello di sviluppo più sostenibile per il pianeta. In realtà questo modello comporta la probabile morte di quei due miliardi almeno di persone che vivono in grandi metropoli e che dipendono dai sistemi complessi per il loro sostentamento, ma raramente gli apocalittici se ne preoccupano. O meglio, non sanno che farci, ma intanto si comprano il loro campicello per autoprodurre il necessario.
La tendenza degli apocalittici è di pensare che siamo sempre alla vigilia del collasso. Adesso, per esempio, di fronte alla recessione innescata dagli Stati Uniti, c’è chi prevede il crollo del sistema. E’ il caso di Mike Adams, un pensatore indipendente il cui ultimo articolo “Il prossimo collasso finanziario dell’America” merita un’attenta lettura. Intendiamoci, Adams dice molte cose vere e probabilmente descrive con chiarezza l’insostenibilità dell’attuale meccanismo economico americano. Forse ha più ragione lui piuttosto che i tanti impiegati del sistema finanziario, che sono tenuti a minimizzare la gravità della situazione perché la fiducia è il carburante del sistema. Da questo punto di vista anche il rapporto “Global Risks 2008” presentato in vista del vertice di Davos dice che il sistema deve essere più governato, ma traccia un quadro che tende probabilmente a sottovalutare la gravità della situazione.
Anche se l’ottimismo ufficiale è ingiustificato, non è detto però che il totale pessimismo sull’efficacia dei meccanismi di correzione del sistema economico globale sia giustificato. Personalmente, la penso come Fabrizio Galimberti, il commentatore del Sole 24 Ore, che sottolinea come “la costellazione di fattori favorevoli” (e cioè “la voglia di benessere di miliardi di uomini gettati nell’economia globale, la favolosa stagione di innovazioni tecnologiche, la stessa innovazione finanziaria nonostante gli eccessi”) farà “affluire i capitali in ogni utile nicchia del rapporto rischio/rendimento”, mantenendo in funzione la macchina della globalizzazione.
Non credo dunque che il sistema economico globale sia alla vigilia del collasso, anche se immagino, anche a seguito di questa crisi, una forte redistribuzione dei pesi relativi: una ridistribuzione di cui la crescita dei “fondi sovrani” è la prima dimostrazione tangibile. Il potere economico si sposta verso l’Asia, ma non solo: il peso assunto da Chavez in America Latina grazie ai petrodollari ne è un’altra dimostrazione. Come è scritto nell’editoriale di Limes, negli anni ’70 le “sette sorelle” controllavano il 75% delle riserve petrolifere e l’80% della produzione. Oggi si devono accontentare rispettivamente del 6 e del 24% (quanto al gas: 20 e 35%). Il 60% delle riserve mondiali appartiene invece alle prime dieci compagnie controllate dai Paesi produttori”. Ma fondi sovrani, caudilli del Sudamerica e National Oil Companies vogliono controllare questo sistema, non certo distruggerlo. E per evitare di diventare una colonia l’Europa (e anche l’Italia) deve avere una politica chiara, senza perdere tempo a discutere di stupidaggini.
Il discorso diventa ancora più serio se torniamo al tema da cui siamo partiti: l’energia e l’ambiente. Qui, purtroppo, gli apocalittici potrebbero avere ragione. Per quanto si possa fare per migliorare la governance ambientale (e Bali rappresenta solo una presa d’atto della gravità del problema) i risultati sulle emissioni di CO2 non si avranno prima del 2030, nella migliore delle ipotesi. E nessuno sa se nel frattempo il peggioramento del clima avrà un andamento lineare (un paio di gradi di riscaldamento, qualche centimetro d’innalzamento dei mari, più catastrofi ma non LA catastrofe) oppure avremo un tracollo (cambiamento delle correnti dei mari, scioglimento accelerato delle calotte, inondazioni e migrazioni obbligate per centinaia di milioni di persone). I rischi sono gravissimi, ma lo sono stati in altri momenti a noi vicini, quando per esempio l’umanità ha rischiato di essere cancellata per qualche errore di valutazione di chi aveva il dito sul pulsante nucleare. Come allora, l’unica cosa da fare, a mio giudizio, è ragionare, cercare di migliorare la governance globale, vedere le cose realisticamente senza farsi abbindolare dall’ottimismo interessato degli impiegati del sistema, ma anche senza abbandonarsi al pessimismo distruttivo degli apocalittici.