Che fare per fermare l’immigrazione clandestina? Non si può fare a meno di porsi questa domanda dopo aver letto Bilal, il libro del giornalista dell’Espresso Fabrizio Gatti che racconta il suo viaggio sui camion dei trafficanti di carne umana dai Paesi dell’Africa subsahariana attraverso il deserto fino alle coste del Mediterraneo. Anche se l’Africa migliorerà le sue prospettive economiche, come sembra che stia accadendo, il gap con l’Europa almeno per una generazione sarà tale da indurre milioni di giovani a sognare l’avventura. E’ importante comunicare nei Paesi d’origine la realtà di questa traffico, ma è anche importante aiutare a sviluppare attività economiche locali che diano ai giovani una speranza, senza che debbano partire per questa drammatica avventura.Bilal“, written by the Italian journalist Fabrizio Gatti, is the story of the people who through the Sahara try to come to Europe as illegal immigrants. You cannot read this book without asking yourself what to do against this terrible exploitation of people who are the best among the young generation of their countries. Illegal immigration has to be stopped, and information campaigns are important, specially if organized in the countries from where the migrants start. But we have to find ways to help families and young people to organize a decent living in their local communities.
Bilal, il libro di Fabrizio Gatti, mi ha molto emozionato. E’ la storia del viaggio attraverso il Sahara, lungo la rotta degli immigrati clandestini, dal Senegal (o dagli altri Paesi dell’Africa occidentale) al Niger fino alla Libia per imbarcarsi per l’Europa. Taglieggiati dai trasportatori, dai militari dei posti di blocco molti di loro finiscono “stranded”, alla deriva senza un soldo in una delle oasi del Niger o della Libia. Muoiono di stenti o nel migliore dei casi diventano schiavi di un padrone locale che li fa lavorare dall’alba al tramonto per un pezzo di pane, con la vaga promessa di ricevere un giorno i soldi necessari per continuare il viaggio. Quelli che finalmente arrivano al Mediterraneo affrontano tutti i pericoli del traghettamento sulle carrette del mare. Arrivati in Italia, se non annegano prima, affrontano le umiliazioni dei centri di accoglienza, il rimpatrio o nel migliore dei casi un lungo periodo di lavoro nero in attesa di un permesso di soggiorno.
Gatti è un giornalista di raro coraggio, che già conoscevamo per le sue cronache sull’Espresso. come finto immigrato nei centri di raccolta di Milano e di Lampedusa. Ma quello che mi ha particolarmente impressionato in questo libro è il contatto diretto con i suoi compagni di viaggio che vogliono tentare la fortuna di Europa. E’ fin troppo facile, per noi, immaginarceli come carne da macello, sprovveduti aspiranti vu cumprà. In realtà si tratta del fiore della gioventù di quei Paesi: spesso laureati, quasi tutti abituati ad usare il computer e dotati di indirizzo email per tenersi in contatto con le famiglie, spinti al viaggio dalla crisi economica o dalle guerre locali, ma anche dalla convinzione che comunque l’Europa offra possibilità economiche enormemente superiori ai Paesi d’origine, per chi ce la fa e per le famiglie che riceveranno le rimesse.
Il cronista Gatti si limita ad evidenziare il vergognoso sfruttamento di questa gente da parte dei tanti intermediari, le contraddizioni e le durezze della politica repressiva europea, senza pretendere di indicare soluzioni. Ma non si può leggere un libro come questo senza chiedersi “che fare?”.
Già, che fare? Non ho idee ben chiare, ma inizio su questo tema una “riflessione a voce alta”, che mi piacerebbe portasse nel tempo a individuare soluzioni concrete. Personalmente non vedo alternative all’immigrazione regolamentata: se aprissimo le porte a tutti, si attiverebbero flussi giganteschi, ben superiori alla migrazione dei rumeni che abbiamo subito quest’anno. Possiamo far entrare in Italia 200mila persone all’anno, ma non due milioni. Non siamo in grado né di offrire lavoro né di garantire un insediamento accettabile. Dunque una qualche forma di contenimento è inevitabile. I centri di accoglienza si possono e si devono migliorare, ma alla fine gli immigrati clandestini, salvo poche eccezioni, devono essere rimandati indietro.
E’ molto importante, però, l’azione nei Paesi subsahariani. Lo sviluppo in Africa adesso è possibile, come dimostrano i dati recenti che segnalano un miglioramento economico in molti Paesi. Si tratta di una tendenza ancora a rischio, per la fragilità di quei regimi, per le molte minacce di guerra, per gli effetti del cambiamento climatico. Ma anche nella migliore delle ipotesi ci sarà comunque un gap drammatico, almeno per una generazione, tra le condizioni di vita in molti Paesi africani e quelle in Europa. La comunicazione diventa quindi fondamentale. La voglia di emigrare tra i giovani africani resterà fortissima ed è importante che conoscano esattamente i pericoli e le conseguenze della clandestinità, i canali legali per trovare lavoro in Europa, le restrizioni a cui l’immigrazione va soggetta, sfatando i tanti miti che circolano. Gatti racconta per esempio di giovani cattolici in viaggio con la convinzione che per loro basti arrivare nella Città del Papa per ottenere il permesso di soggiorno.
Un’azione di comunicazione è già in corso: durante la partita Svizzera – Nigeria (vista in molti Paesi africani) è andato in onda uno spot su un giovane africano che racconta per telefono ai genitori in Africa di frequentare l’università in Europa mentre invece sta vivendo tutti i drammi della clandestinità. Programmi di dissuasione sono attivati dall’Europa e all’Organizzazione internazionale per i Migranti. Mi sembra molto importante che si stiano attivando anche iniziative dal basso, come quella di Yayi Bayam Diouf, che ha perso il figlio sulla rotta tra il Senegal e la Spagna e guida adesso il gruppo Femmes de Thiaroye contre l’emigration clandestine. Aggiungo che il ruolo delle donne è importantissimo. Anch’io, nei miei viaggi nell’Africa subsahariana, ho riscontrato questa differenza di atteggiamento tra le donne che lavorano, attente a costruire giorno per giorno il miglioramento, e gli uomini che sognano il grande viaggio, la rottura col presente, ma spesso sono meno impegnati nella quotidianità.
La comunicazione in loco però è solo una faccia della medaglia. L’altra è l’aiuto allo sviluppo, in forme capillari quali il microcredito o la cooperazione decentrata a livello di comunità. Spesso basterebbe poco per fornire l’aiuto economico necessario per mantenere un’attività locale, senza tentare questa drammatica avventura. Il problema è come trovare i canali giusti per fornirlo, questo aiuto. Ci sono molte iniziative, bellissime, per adottare bambini a distanza. Forse bisognerebbe anche, in qualche modo “adottare” i giovani, o le loro famiglie per aiutarli a costruirsi una prospettiva sulla loro terra.

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