Cari compagni americani, vi scrivo questa lettera…

Ritornare dopo 50 anni. La mia non è la storia dell’emigrante che torna da pensionato al suo paesello, ma al contrario quella di un adolescente che va con una borsa di studio per un anno a Lincoln, nelle grandi pianure americane, e ci ritorna da anziano, avendo scoperto grazie a Facebook che i suoi compagni di allora hanno organizzato una “50 years celebration”. E’ stata una settimana molto bella, per il calore con cui sono stato accolto, ma anche molto stimolante, perché mi ha fatto riflettere sull’America più profonda e sulle differenze rispetto a noi europei. Ho raccolto queste impressioni in una lettera ai miei compagni, pubblicata integralmente sul mio blog inglese.

Sono stato spesso negli Stati Uniti per lavoro o per turismo, ma questa esperienza è stata diversa. Il Nebraska è esattamente al centro degli Stati Uniti. Da queste praterie passavano le carovane dei pionieri prima che la ferrovia facilitasse il viaggio alla costa occidentale. Non si fermavano, i pionieri, perché le grandi pianure erano considerate, a torto, poco fertili. E ancor oggi pochi stranieri visitano il Nebraska. E’ la terra del granoturco e del bestiame, di gente sorridente e aperta, con valori semplici e condivisi. Questo è il cuore dell’America, diverso da New York e da Washington, ma anche dalla California o dal Colorado: un mondo conservatore, ricco di valori profondi, con una religiosità viva e sincera. Un mondo molto lontano dal nostro.

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L’intrigo saudita… visto dal Nebraska

Pubblico questo post dall’aeroporto di Chicago. Domani nelle librerie italiane uscirà il mio libro L’Intrigo saudita, nella collana The Cooper Files. Questa mattina Sergio Rizzo ha anticipato la pubblicazione con un bell’articolo sul Corriere. Lo staff di Banda Larga, la società editoriale che gestisce Cooper (oltre ad altre importanti pubblicazioni come Internazionale e East) è impegnato in queste ore nella promozione del libro. Mi aspetto che il mio lavoro serva ad aprire un dibattito che corregga la memoria storica su un episodio clamoroso della storia italiana di trent’anni fa. E io… che ci faccio in America?

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La felicità in tempi di crisi: ricetta danese e riflessione coreana

La Danimarca è davvero il Paese più felice del mondo? Così dicono quasi tutte le indagini degli ultimi anni sul benessere individuale, anche se condotte con metodologie diverse. Ma che cosa è la felicità? Come si misura? Le misurazioni sono comparabili tra Paesi dove magari i concetti stessi di felicità e benessere assumono valori differenti nelle lingue e nelle culture locali?

Confinato per anni nel dibattito tra esperti, il tema della misura del cosiddetto “benessere percepito” è diventato centrale per statistici ed economisti e lo sarà sempre più per i leader politici del 21° secolo. La crisi economica ne ha già oggi accentuato l’importanza. Si coglie meglio il fatto che ci sono altri valori oltre la crescita dei beni e servizi prodotti: la distribuzione della ricchezza, la solidarietà, la serenità sul futuro proprio, dei propri cari e dell’ambiente che ci circonda. La crisi, insomma, può essere il momento giusto per chiedersi che cosa conta veramente, come lo si misura, come si controllano i risultati dell’azione pubblica verso gli obiettivi comuni.

Di felicità e benessere si è discusso per cinque giorni, dal 19 al 23 luglio, nel corso della nona Isqols conference, il congresso di tutti i ricercatori che si occupano di “quality of life”. Il tema, come abbiamo detto, sarà anche al centro del World Forum promosso dall’Ocse su “Statistics, knowledge and policy” che si svolgerà a Busan, in Corea, dal 27 al 30 ottobre. La riunione, terza della  serie  dopo i Forum di Palermo nel 1974 e Istanbul nel 1977 (si veda il mio articolo su East n.  17), radunerà 1500 partecipanti di 130 Paesi e certamente offrirà nuovi spunti di riflessione sulla misura del progresso delle collettività umane. L’attenzione internazionale a questi temi è stata fortemente stimolata da Enrico Giovannini, il “chief statistician” dell’Ocse diventato ora presidente dell’Istat.

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Il Mago della matematica: meno analisi e più statistica

“Oggi l’insegnamento della matematica si basa su aritmetica e algebra e tutto quello che impariamo in seguito va verso una sola materia: al vertice di questa piramide c’è l’analisi matematica. Penso che quella sia la cima sbagliata; le materie che ogni studente che esce dal liceo dovrebbe conoscere sono invece la statistica e il calcolo della probabilità”. Così afferma il docente di matematica Arthur Benjamin, uno dei conferenzieri più popolari negli Stati Uniti per la sua capacità di presentare in modo invogliante la scienza dei numeri, tanto da meritarsi il soprannome “Mathemagician”.

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Informazione: si rischia la crisi di abbondanza

Che cosa succederà in un mondo in cui scaricare contenuti da Internet senza pagarli non è più considerato un comportamento riprovevole ed è praticamente impossibile perseguire i “pirati”? Mi ero già occupato  di questo tema in due post di questo blog, ma l’ho sviluppato in un articolo che ho scritto insieme a mio figlio Pietro Speroni di Fenizio per East, Europe and Asia Strategies. L’articolo è stato pubblicato nel numero di giugno della rivista sotto il titolo: “Informazione: si rischia la crisi di abbondanza”. Ecco il testo, corredato di qualche link ipertestuale.

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I migranti, la Libia, l’Europa

Due filmati totalmente diversi ci danno il senso del dilemma dell’Europa sui problemi dell’immigrazione. Il primo, di grande attualità in questi giorni di visita in Italia di Muammar Gheddafi, si chiama “Come un uomo sulla terra”. E’ stato realizzato su iniziativa di Asinitas, una Onlus romana che opera nel campo dell’accoglienza e della formazione dei migranti, affidando agli stessi immigrati il compito di raccontare con la macchina da presa il viaggio fino al Mediterraneo. Il risultato, altamente drammatico, viene ora proiettato in molte sedi culturali ed è stato anche mostrato a Piazza Farnese in occasione della visita del dittatore libico.
Gli intervistati sono quasi tutti uomini e donne che provengono dall’Etiopia. Il racconto di quello che hanno subito in Libia è sconvolgente. Al termine di un viaggio difficile e pericoloso attraverso il deserto, dopo essere stati più volte derubati, vengono arrestati dalla polizia libica quando arrivano alla costa e rimandati indietro in oasi dove rimangono a  marcire per mesi in prigione. Le donne spesso stuprate, Poi la polizia stessa li libera e li vende a trafficanti di uomini che consentono loro di rimettersi in contatto con la famiglia d’origine, per farsi mandare altri soldi. A questo punto credono di poter andare liberi, ma quasi sempre sono nuovamente arrestati dalla polizia e la trafila ricomincia. C’è chi ha vissuto questo calvario sei o sette volte.
L’altro film su cui meditare è uno spezzone cinematografico che si trova su You Tube. Con le aride cifre della demografia, mostra la rapida crescita della popolazione musulmana in Europa e in America. Riporta anche una frase dello stesso Gheddafi, sul fatto che ormai è inutile combattere l’Europa con la spada o il terrorismo, perché per vincere la battaglia per l’islamizzazione basterà aspettare gli effetti della diversa prolificità delle famiglie immigrate rispetto a quelle già residenti.
Il filmino antislamico è realizzato da un’associazione fondamentalista cristiana degli Stati Uniti e il suo invito a rispondere all’ondata musulmana con un’intensa opera di evangelizzazione suona un po’ patetico. O anche pericoloso, se ci porta a  immaginare Occidente dilaniato dallo scontro di religioni. Anche le cifre sono forse gonfiate.
Tuttavia la testimonianza della sofferenza  del primo commovente film, unita all’arido e contrapposto linguaggio delle cifre, devono stimolarci a elaborare una politica che non sia soltanto fatta di frasi a effetto o di misure contingenti e inutili. Una politica che mostri pietà, ma tenga conto delle dinamiche di lungo termine. Cerchiamo di fissare alcuni punti.

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Benvenuti nel mondo dei pirati: vinceranno loro

La guerra contro la pirateria infuria, non solo nel Mar Rosso, ma anche sul web. I detentori di copyright (editori, case discografiche, produttori cinematografici) sono scatenati da anni per bloccare il peer to peer, cioè quei software che consentono di trasferire “alla pari”  tra gli utenti musica, film o testi protetti. E’ di ieri la notizia della condanna a un anno di prigione da parte di un tribunale di Stoccolma per complicità nella violazione di diritti d’autore dei quattro giovani che con il sito svedese “The pirate bay” hanno facilitato gli scambi formalmente illeciti. “Don’t worry”, hanno risposto i pirati sul loro sito.
Non ho dubbi sul fatto che i pirati del Corno d’Africa alla fine dovranno capitolare. Ma dopo la lettura del libro
di Luca Neri “La Baia dei Pirati – assalto al copyright” (Cooper editore, supportato da un sito che segue gli sviluppi della questione), mi sono convinto che invece sul web vinceranno loro. Le ragioni sono spiegate dall’autore anche in una intervista sulla Repubblica, rilasciata dopo la sentenza svedese. Quello che invece è ancora molto oscuro è come sarà questo mondo dominato dalle leggi (anzi dalla mancanza di leggi) dei pirati: come se Morgan o l’Olonese avessero esteso all’intera America spagnola i costumi debosciati della Tortuga. E val la pena di ragionarci.

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Il giornalismo sopravviverà ai giornali?

E’ paradossale: in un mondo che macina sempre più informazioni il mestiere di cronista rischia di sparire. Internet offre strumenti formidabili: blogs, digg, twitter… che però non bastano a garantire una copertura adeguata della realtà, ancor oggi raccontata sistematicamente soltanto dalla carta stampata. Nessuno riesce a immaginarsi il giornalismo del futuro, ma dopo uno scambio di idee con mio figlio, utente avanzato dell’informazione in rete, e riflettendo sulle parole di un esperto come Clay Shirky, ho cercato di fissare alcuni punti.

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La società del lavoro impalpabile

La “quantità di lavoro” impiegata da un sistema economico è un insieme determinato? La domanda è tutt’altro che teorica. L’Istat per esempio ci dice che l’Italia per fare il suo Prodotto interno lordo, compresa la ricchezza creata dall’economia sommersa, ha bisogno di circa 25 milioni di “unità di lavoro”, cioè di persone che lavorano a tempo pieno.
Che cosa cambia se questa “quantità di lavoro” è fornita secondo mix differenti? Per esempio con più anziani e meno giovani, o con un maggior apporto delle donne alle attività produttive? E’ vero che, come pensano molti politici, il lavoro che si dà agli uni viene tolto agli altri? Che se per esempio si ritarda l’età pensionabile si rinvia l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro?

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Riflessione sul libro di Martini: quando arriva l’ora di sognare

Nelle sue “Conversazioni notturne a Gerusalemme”, Carlo Maria Martini riprende le parole del profeta Gioele citate anche dall’apostolo Pietro: “I vostri figli e le vostre figlie profeteranno, i vostri giovani avranno visioni e i vostri anziani faranno sogni”. Sono parole importanti anche per un laico come me…

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