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31 dicembre 2007Lascia un commentoSenza categoriadi Donato Speroni

Nessuno che sia in buona fede può negare che il Paese stia vivendo una fase di declino. Lo dicono le statistiche sul Prodotto interno lordo pro capite, sempre più in basso rispetto alla media europea, e molti indicatori sulla qualità dei servizi pubblici. Persino il Censis, che col suo ultimo rapporto ha voluto opporsi al declinismo, è stato costretto ad affidare le sue speranze a minoranze che emergono dalla poltiglia nella quale si è disfatto il Paese. Mi sembra anche innegabile che il declino rischi di trasformarsi in degrado, ma il realismo sullo stato del Paese non significa dare per scontato o crogiolarsi nel fatto che il Paese va alla malora. Bene ha fatto, dunque, il Sole 24 Ore a improntare all’ottimismo i suoi articoli di fine anno.
“Italiani depressi, clima impazzito, mondo fuori controllo: il nuovo anno si apre all’insegna dell’ansia e del malumore. Ma forse, nelle pieghe del presente, si possono trovare ragioni anche minime, apparentemente marginali, per non vedere tutto nero”. Si apre così lo “speciale Capodanno” del Sole 24 Ore, significativamente intitolato “2008ttimisti”.
La scelta del giornale di infondere fiducia nei lettori si vede anche da altri articoli in positivo usciti negli ultimi giorni dell’anno: soprattutto un lungo articolo di Marco Vitale, un uomo d’impresa che ha molti meriti (tra gli altri il riscatto del porto di Gioia Tauro) e che non parla mai a vanvera. Il quale elenca “cinque ragioni non scontate per essere ottimisti” e cioè la rimonta contro la mafia, la tenuta della media impresa italiana, il recupero della grande industria, la crescita dello spirito d’impresa anche in zone soffocate dalla cattiva politica e dalla mentalità assistenziale come la Campania, i progressi verso la semplificazione del sistema istituzionale.
Qualche dietrologo vedrà in questa scelta una decisione della Confindustria, che controlla la quota di maggioranza del quotidiano, di avallare la linea del bicchiere mezzo pieno del primo ministro Romano Prodi. Personalmente, ci vedo solo l’intelligenza del direttore Ferruccio De Bortoli e dei suoi collaboratori che sanno bene che un giornale che fa opinione come il Sole non può limitarsi a denunciare ciò che non funziona, ma deve dare ai suoi lettori ragioni per sperare e per battersi verso il cambiamento.
Oggi in Italia è più che mai importante distinguere tra il pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo della volontà, se mi si passa la frase gramsciana ormai trita e ritrita. Nessuno che sia in buona fede può negare che il Paese stia vivendo una fase di declino. Lo dicono le statistiche sul Prodotto interno lordo pro capite, sempre più in basso rispetto alla media europea, e molti indicatori sulla qualità dei servizi pubblici. Persino il Censis, che col suo ultimo rapporto ha voluto opporsi al declinismo, è stato costretto ad affidare le sue speranze a minoranze che emergono dalla poltiglia nella quale si è disfatto il Paese. Mi sembra anche innegabile che il declino rischi di trasformarsi in degrado, come afferma da tempo l’associazione Società Aperta, la quale ebbe il merito, ancora ai tempi del governo Berlusconi (che era altrettanto immotivatamente ottimista quanto l’attuale) di segnalare per prima il declino.
Ma il realismo sullo stato del Paese non significa dare per scontato o crogiolarsi nel fatto che il Paese va alla malora. Significa invece battersi, con la consapevolezza dei rischi che corriamo, per invertire la tendenza.
Nel marzo scorso scrivevo sul mio blog: “il vero rischio dell’Italia, in questo momento, è di passare dal declino al degrado: da una graduale involuzione economica dovuta alla mancanza di una politica adeguata, a una situazione di deterioramento strutturale: delle istituzioni politiche, ma anche della società civile, a causa dell’impoverimento del capitale umano, della diffusione di costumi clientelari e comportamenti malavitosi, della sfiducia nelle possibilità di cambiamento. Ci sono fenomeni, ampiamente documentati, che segnano un nostro graduale distacco dal resto dell’Europa. La qualità delle scuole e delle università con l’incapacità di applicare al sistema educativo dei criteri di selezione dei finanziamenti in base al merito è certamente uno di questi. La paralisi della giustizia; la constatazione che intere regioni sono costantemente dominate dalla malavita organizzata; lo stile politico prevalente in molte amministrazioni locali, ben raccontato da trasmissioni televisive di fronte alle quali non si sa se ridere o piangere; tutto porta a dipingere un quadro di un Paese magari con qualche decimo di punto di Pil in più, ma sostanzialmente allo sbando, con una sinistra di governo che minimizza la gravità dei fenomeni e una destra d’opposizione che fa di tutto per impedire anche quel poco che il governo vorrebbe fare“. Scusate la lunga autocitazione, ma purtroppo non credo che la situazione sia cambiata. Aggiungevo però che questo “è anche un Paese meraviglioso, di gente che si dà da fare, inventa imprese e nuovi lavori, manifesta solidarietà in mille iniziative sociali, dimostra intensi interessi culturali nonostante le carenze della scuola e i messaggi negativi della televisione“. E anche questa parte della diagnosi mi sembra confermata.
Di nuovo, forse, sul versante dell’ottimismo, ci sono due fenomeni: la rinnovata vitalità del sistema delle imprese e la maggiore consapevolezza del fatto che senza una maggiore sensibilità agli interessi collettivi, come ha sottolineato il fondo dell’economista Carlo Trigilia sempre sul Sole, non si va da nessuna parte. Non si può scaricare tutte le responsabilità sulla “casta”, sui politici che meritano mille volte di essere mandati dove li manda Beppe Grillo, e dimenticare che troppi italiani appena possono si comportano allo stesso modo. Serve un nuovo sistema politico, certamente. Ma serve anche un nuovo rigore individuale. E’ un po’ come il discorso sul cambiamento di clima: speriamo che i grandi della terra si mettano d’accordo per un trattato che migliori il Protocollo di Kyoto, ma intanto ricordiamoci di spegnere la luce quando non serve.
In questa situazione italiana così confusa, vedo spesso che i giovani con i quali mi confronto sono incerti tra rimanere (o tornare) in Italia oppure costruirsi un futuro all’estero. Io credo che la scelta migliore, se possibile, è l’insieme delle due. Costruirsi opportunità di lavoro, capacità linguistiche, conoscenze e relazioni su dimensioni internazionali. Ma mantenere un piede in Italia perché senza la capacità dei giovani di indignarsi, la voglia di cambiare le cose, le loro energie, questo Paese è condannato. E’ bello essere cittadini del mondo, ma è anche bello avere alle spalle una Patria di cui essere orgogliosi, perché, come diceva Giorgio Gaber, anche quando non ci sentiamo italiani, per disgrazia o per fortuna lo siamo. Auguri.

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