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26 novembre 20071 CommentoSenza categoriadi Donato Speroni

C’è una distinzione che passa all’interno di tutti gli schieramenti; c’è chi crede che i miglioramenti collettivi debbano provenire dall’alto e chi dal basso. I “top down” sono quelli che credono nelle istituzioni politiche, magari per abbatterle e crearne di nuove. La loro attenzione è soprattutto rivolta al funzionamento delle organizzazioni collettive. I “bottom up” pensano invece che qualsiasi riforma debba provenire dall’esperienza delle comunità locali, o addirittura da un cambiamento profondo della psicologia umana. E’ fin troppo facile affermare che in realtà qualsiasi innovazione importante ha bisogno di entrambe le tendenze. Invece si corre il rischio che la contrapposizione, se accentuata e trasformata in ideologia (e mi sembra che stia avvenendo), diventi materia di confusione e di paralisi.
I concetti di destra e sinistra sono sempre più incerti, ma più o meno sappiamo di che cosa stiamo parlando. Chi sta a destra è più attento ai valori della stabilità e dell’ordine, chi sta a sinistra guarda al cambiamento. A destra si tende a privilegiare i valori dell’individuo, a sinistra le esigenza di giustizia sociale. Schemi molto generali ma ancora validi, anche se la realtà italiana tende a intorbidare le acque.
C’è però una distinzione che passa all’interno di tutti gli schieramenti e che in molti casi mi sembra anche più significativa. Premesso che tutti affermano di aspirare a un miglioramento della situazione collettiva (altrimenti non si occuperebbero di politica) c’è chi crede che questo miglioramento debba provenire dall’alto e chi dal basso: quelli che possiamo chiamare i “top down” e i “bottom up”.
I “top down” (TD) sono quelli che credono nelle istituzioni politiche, magari per abbatterle e crearne di nuove. La loro attenzione è soprattutto rivolta al funzionamento delle organizzazioni collettive.
I “bottom up” (BU) pensano invece che qualsiasi riforma debba provenire dal basso, dall’esperienza delle comunità locali, o addirittura da un cambiamento profondo della psicologia umana. Sono poco interessati ai meccanismi politici, molto di più alle esperienze concrete che dimostrano la possibilità di vivere o di organizzarsi in modo innovativo, diverso, alternativo.
Esistono TD e BU di destra e di sinistra. Proviamo a fare uno schemino.
TD di destra: crede in uno stato forte, che garantisce la legge e l’ordine. Favorisce un certo dirigismo in materia economica.
BU di destra: ce ne sono due versioni. Quella di mercato, vuole ridurre al minimo l’influenza dello Stato e lasciare il massimo di spazio all’iniziativa individuale. Quella localistica (forte negli Stati Uniti) privilegia la difesa delle comunità locali: il mondo è nel caos, fortifichiamo il nostro quartiere.
TD di sinistra: sono i politici classici, che in Italia conosciamo fin troppo bene: i socialisti, i comunisti, i cattolici, che in buona o cattiva fede vogliono usare lo Stato, le azioni dell’esecutivo, i cambiamenti normativi, per ottenere progresso e giustizia sociale.
BU di sinistra: ne fanno parte i delusi dalla politica. In Italia, molti ex sessantottini. Quasi tutti i ragazzi che conosco. Credono che le uniche esperienze valide siano a livello locale, e spesso con questa convinzione riescono anche a fare cose egregie. Ma non vanno al di là delle buone pratiche locali. Una variante dei BU di sinistra sono i BU religiosi, che pensano che non ci sia politica valida senza un profondo cambiamento dell’uomo. Anche le forme di non violenza si avvicinano alla BU religione: non reagiamo alle imposizioni del potere o dei violenti e il mondo cambierà. Forse, ma quando?
E’ fin troppo facile affermare che in realtà qualsiasi cambiamento profondo ha bisogno di entrambe le tendenze: è dal basso che provengono le esperienze, le innovazioni più significative, ma solo quando il cambiamento diventa sistema perché le istituzioni lo hanno fatto proprio, si trasforma non più in una pratica lodevole, ma in un’occasione di miglioramento per tutti. Ma questa circolazione tra “bottom up” e “top down” mi sembra sempre più difficile. Si corre il rischio che la contrapposizione tra i BU e TD, se accentuata e trasformata in ideologia (e mi sembra che stia avvenendo), diventi materia di confusione e di paralisi.
Prendiamo per esempio il tema “localismo – globalizzazione”. Credo che ben pochi, nel mondo, siano schierati per una difesa acritica della globalizzazione. Anche chi, come me, è convinto che i benefici di questo processo siano superiori ai danni pensa che il processo vada comunque governato per evitare gli effetti più negativi sulle popolazioni più deboli e sull’insieme del Pianeta. Ma come? Privilegiando sempre e comunque le esperienze locali, rispondono i BU, convinti che gli scambi debbano essere accessori rispetto ai processi di produzione e di governo di ciascuna comunità.
Illusioni, rispondono i TD: in un mondo che arriverà a nove miliardi di individui, di cui metà nelle grandi aree metropolitane, non si può pensare che il ritorno al localismo sia la risposta a tutti i problemi. Servono istituzioni globali. Il problema non è di fare la guerra alle multinazionali. Il problema è migliorare la governance mondiale.
Esempi analoghi si possono fare per le politiche di sviluppo, per il miglioramento ambientale, per i risparmi di energia: gran parte delle migliori pratiche nascono a livello locale, ma senza un sistema che le tuteli e le diffonda i cambiamenti saranno lentissimi.
Dunque hanno ragione entrambi, i TD e i BU. Personalmente io credo che il recupero della dimensione dal basso sia fondamentale per la qualità della vita. In tutto il mondo si registra una forte affermazione del desiderio di autonomia locale, che consente ai cittadini maggiori livelli di partecipazione e che oggi, grazie a Internet, produce buone pratiche facilmente scambiabili con altre comunità.
Credo però che nel frattempo i processi globali vanno avanti e devono essere governati, senza contrapposizioni paralizzanti. World Trade Organization, Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondale possono avere anche sbagliato politica in certi momenti storici, ma non sono affatto convinto che il mondo sarebbe migliore senza queste organizzazioni. Insomma, credo in una politica sempre più attenta alla dimensione locale, ma che non distrugge la dimensione globale e cerca piuttosto di governarla.

FederalismoGlobalizzazioneGovernmentGovernoItaliaLinguaggioSinistraSocialisti
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d.speroni

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1 Commento
  1. 1 dicembre 2007 - 12:17
    Scarsos

    Completamente d’accordo! Complimenti per l’articolo!:)

    Una governance globale-locale sarebbe veramente una buona scelta.

    Ma una governance g-locale richiede che la maggior parte dei livelli abbiano capacità, competenze e buon senso per cooperare efficacemente e che i compromessi fatti fra gli attori generino effetti positivi: c’è sufficiente materia prima di questo genere sul nostro Pianeta?

    Nei miei studi di “sviluppo locale” non sempre i processi di governance generano buoni risultati, soprattutto laddove non si riesce a creare una leadership e buone pratiche di dialogo fra gli attori…

    aumentando il numero degli attori e degli interessi alla scala globale, non sarà facile avere risultati positivi scontanti.

    Certo il fatto stesso di provarci (con progetti come Agenda21 e l’Unione Europea) già crea capitale sociale(relazionale) e competenze per un dialogo migliore nel futuro.

    Quello che è sicuro, come dice lei, che a chiudersi in ideologie stagne bottom-up o top-down non porterà da nessuna parte.

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