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1 luglio 2007Lascia un commentoSenza categoriadi Donato Speroni

Due giorni di discussioni sul futuro dell’energia e del clima hanno consentito di tracciare un quadro aggiornato della situazione e di registrare ancora una volta il ritardo dell’Italia: un ritardo d’attenzione ancor prima che di politiche.
Prima di entrare nel merito vorrei fare una premessa. Io credo nell’utilità di convegni e seminari dove si confrontano idee ed esperienze senza la ricerca di effetti spettacolari e le costrizioni di tempo che caratterizzano invece i dibattiti attraverso i media. Però non è un caso che per sentire qualcosa d’interessante su temi che riguardano il futuro del nostro Paese si debba partecipare a incontri che si svolgono prevalentemente in inglese, dove la presenza prevalente di ospiti internazionali depura anche gli interventi degli italiani dai tatticismi e dagli esibizionismi politici. La barriera linguistica da noi è tuttora un problema: fa sì che le idee circolino con ritardo e che siano accolte con maggiore scetticismo, perché spesso arrivano ai decisori italiani in sintesi smozzicate e poco credibili.
Ma veniamo al cambiamento di clima. L’occasione di fare il punto è stata offerta dal Venice Forum organizzato il 21 e 22 giugno da Unicredit e dalla rivista East diretta da Vittorio Borelli. Il premio Nobel Carlo Rubbia ma anche molti altri partecipanti hanno contribuito a tracciare scenari credibili di quello che ci aspetta in futuro. Ecco una sintesi di quello che ho imparato, in dieci punti.
1. La terra si sta riscaldando, questo ormai è un fatto indiscutibile, così come è certo il rapporto tra cambiamento di clima ed emissioni di anidride carbonica (CO2). Per quanto si possano introdurre comportamenti virtuosi nei Paesi industrializzati, la fame di energia e il giusto bisogno di di crescita di quelli in via di sviluppo farà sì che almeno fino al 2030 le emissioni di CO2 continueranno ad aumentare. L’effetto sul clima sarà inevitabile: da due a quattro gradi di aumento nella seconda metà del secolo. Anche senza mettere in conto le accelerazioni dei fenomeni, sempre possibili nei sistemi complessi, ci saranno forti impatti sulle aree coltivabili, aumento del livello dei mari, inevitabili migrazioni di grandi masse di popolazione costrette a lasciare le aree colpite dalla siccità o minacciate dall’acqua.
2. L’ineluttabilità di un moderato (ma comunque drammatico) aumento della temperatura non deve essere un alibi per non intervenire nel modo più deciso. Fino a quando le emissioni di CO2 non sarano riportate al limite massimo che la terra e gli oceani possono assorbire senza aumentarne l’accumulo nell’atmosfera, continueranno a innescarsi fenomeni gravissimi e imprevedibili. Per ritornare a una situazione d’equilibrio si deve riportare il mondo ad emissioni pari alla metà delle attuali. Considerando le incomprimibili esigenze dei Paesi nuovi, i Paesi di più antica industrializzazione dovranno porre in atto politiche di risparmio e riconversione energetica molto drastiche: difficili, ma non impossibili.
3. Un’ulteriore spinta a cambiare il modello di sviluppo proverrà dal fatto che comunque nella seconda metà del secolo il petrolio è destinato a finire. Il gas naturale durerà un po’ di più, ma la fonte più economica a disposizione ancora per secoli sarà il carbone. Purtroppo è anche la più inquinante, almeno allo stato attuale delle conoscenze, ma è bene ricordare questa disponibilità: se non metteremo in atto politiche di sviluppo delle energie alternative, la spinta economica sarà ad usare fonti ancor più “sporche” di quelle attuali.
4. L’energia nucleare è una risposta, ma solo in determinate situazioni. I timori sul trattamento delle scorie rendono improponibile il ritorno al nucleare in Italia e in altri Paesi dove l’opinione pubblica è fortemente contraria. Risultato: le nuove centrali nucleari si faranno (e si stanno già facendo) quasi esclusivamente nei Paesi in via di sviluppo. Ma pongono anche gravi problemi politici, perché è necessario stabilire quali sono i Paesi virtuosi che possono fare uso delle tecnologie nucleari e quali sono invece i Paesi canaglia che potrebbero servirsene per fare ordigni nucleari.
5. Le energie rinnovabili che ci sono più familiari continueranno a dare un apporto molto limitato alla copertura dei nuovi fabbisogni energetici. Il solare fotovoltaico e l’energia eolica, anche se fortemente incentivati in numerosi Paesi europei, hanno comunque un costo elevato. E’ improbabile in queste condizioni che l’obiettivo del Consiglio europeo di arrivare a un 20% di produzione da energie rinnovabili entro il 2020 possa davvero essere raggiunto con questi mezzi.
6. Importantissimo sarà invece l’apporto del risparmio energetico, soprattutto nell’edilizia. Gli esperimenti compiuti in Germania (ma anche in Alto Adige) dimostrano che è già possibile costruire case che si riscaldano con pochi litri di gasolio all’anno. Per ottenere risultati significativi però sarà necessario incentivare la riconversione dell’esistente e non solo operare sulle nuove costruzioni e sui nuovi impianti.
7. Il sistema più efficace e meno distorcente per incentivare la riconversione a produzioni e consumi più appropriati è quello della tassazione delle emissioni di CO2. Sull’onda degli accordi di Kyoto l’Europa ha avviato questo meccanismo, anche se limitato alle imprese elettriche e a pochi altri casi. Si prevede che anche Stati Uniti e Giappone lo introducano. Il mercato europeo dei diritti d’inquinamento è stato inizialmente distorto da un eccesso di permessi rilasciati dalle autorità. Si avvia però verso i 25/30 euro per tonnellata di CO2 emesso, un livello che comincia a diventare stringente, ma c’è chi prevede che nei prossimi anni salirà anche a dieci volte questo prezzo. La tassazione delle emissioni, se estesa a buona parte del sistema industriale, può servire anche agli Stati per finanziare politiche di promozione delle energie pulite, con un limite: poiché questa tassazione non è condivisa da tutti gli Stati, c’è sempre il rischio che si traduca in un incentivo alla delocalizzazione delle imprese verso Paesi che non applicano la “carbon tax”. Sarebbe più equo, anziché tassare le imprese, tassare i consumi finali di beni la cui produzione comporta emissioni. Sarebbe una sorta di “Ica”, imposta sul carbonio aggiunto. Qualcuno comincia a parlarne, ma si tratta di ipotesi ancora lontane. In ogni caso l’effetto sulla crescita sarebbe limitato, anche perché la lotta all’inquinamento (energie alternative e risparmio energetico) incentiva attività nuove: si calcola che in Germania il settore nel 2020 sarà più importante delle produzioni legate all’automobile.
8. Si è anche creato un fiorente mercato delle attività antinquinanti che possono riequibrare le emissioni dannose. Per esempio, un’impresa che vuole figurare “a emissioni zero”, una volta fatto il conto delle sue emissioni, può acquistare in un apposito mercato attività che riassorbano una pari quantità di anidride carbonica, attraverso riforestazioni o altre azioni virtuose quali l’incentivazione di produzioni rinnovabili. La Cina ha colto al volo questa opportunità e offre centinaia di opportunità garantite da certificati. In realtà, se i paesi africani ne avessero la capacità, i certificati antinquinamento potrebbero essere una grande opportunità di aiuto allo sviluppo.
9. La grande speranza nel campo delle energie rinnovabili proviene però dalla ricerca. Accantonata per ora la fissione nucleare e anche le tecnologie legate all’idrogeno, circolano molte idee nuove: dalla scomposizione del gas naturale per far sì che non emetta CO2 all’interramento delle emissioni delle centrali a carbone, fino alle nuove piante capaci di trasformare in energia una grande quantità della luce e del calore che assorbono. Ma tra questi discorsi il più significativo e importante riguarda il solare di nuova generazione, il cosiddetto Concentrating solar power (Csp). In Spagna, in Algeria, anche in Sicilia sono in sperimentazione stazioni solari che ricoprendo di specchi interi ettari di territorio sono in grado di produrre energia elettrica a costi accettabili. E’ chiaro che richiedono grandi estensioni e tanto sole, ma i progetti, dato che ormai la trasmissione di energia elettrica a distanza è ormai possibile con perdite limitate, si orientano sul deserto del Sahara: basterebbe un quadrato di specchi di alcune decine di chilometri per fronte al fabbisogni di energia elettrica di tutta l’Europa. Non è facile arrivarci, naturalmente, perché queste centrali richiedono acqua o altre tecniche di raffreddamento (che comunque esistono). Ma si tratta di una prospettiva molto concreta.
10. Da tutto quanto detto risulta sempre più chiaramente che il sistema energia – ambiente è fortemente interrelato e richiede una visione globale. I paesi in via di sviluppo non accetteranno di limitare le loro emissioni se quelli industrializzati non cominceranno a ridurre i loro forti consumi. Al tempo stesso molte iniziative di lotta alle emissioni andranno condotte nei paesi nuovi. L’Europa che è già dipendente da Russia e Medio Oriente per petrolio e gas naturale, può avere tutto l’interesse a sviluppare rapporti intensi con il continente africano per la produzione di energia elettrica. Il meccanismo, molto schematicamente, dovrebbe essere questo: tassare da noi le produzioni o i consumi a contenuto energetico e reinvestire almeno una parte del ricavato nella realizzazione di nuove centrali solari sull’altra sponda del Mediterraneo. Se poi queste centrali contribuiranno a creare lavoro, potrebbero anche aiutare a ridurre la spinta migratoria. Utopie? Ma quanti dei discorsi che oggi facciamo, partendo da dati di fatto, dieci anni fa ci sembravano solo fantasie?

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